Ieri, a Perugia, il dottor Luca Palamara inizia il proprio percorso processuale penale (dopo quello disciplinare concluso con la radiazione dalla magistratura) e sarà interessante vedere come si svolgerà questa vicenda e se dissiperà una volta per tutte le molteplici ombre che ancora si addensano sulla magistratura italiana e sui metodi di funzionamento del CSM, pesantemente condizionato in questi anni da logiche a dir poco opache. Quelle stesse logiche che emergono dalle chat di Palamara sequestrate dagli inquirenti e che dovranno essere vagliate in sede dibattimentale.
Ma questi fatti non possono esaurire la loro rilevanza solo sul piano dell’accertamento del reato o dei reati, proprio perché la pervasività del patologico rapporto tra magistratura e politica ha avvelenato così tanto il Paese che ancora oggi rimangono intatti tutti i dubbi riguardo vicende che non finiscono mai di lasciare dietro una inquietante eco.
Proprio martedì scorso, il dottor Nino Di Matteo, prestigioso magistrato antimafia e membro del CSM ha contestato la mancata utilizzazione degli scambi di messaggi tra Palamara e il Giudice ed ex parlamentare Donatella Ferranti, nel procedimento interno all’organo di autogoverno aperto a carico di quest’ultima per incompatibilità ambientale.
Pomo della discordia sarebbero state le presunte pressioni che la stessa Donatella Ferranti avrebbe esercitato su Luca Palamara negli anni 2017-2018 nella sua qualità, appunto, di parlamentare del Partito Democratico (non era invece responsabile dell’area Giustizia, come impropriamente riportato da Di Matteo) nel tentativo di orientare a favore di candidati graditi due nomine, l’una per il posto di Avvocato Generale di Cassazione (terza carica per importanza nella Suprema Corte), l’altra per la Presidenza del Tribunale di Viterbo. Secondo Di Matteo, infatti, queste conversazioni dimostrano chiaramente il tentativo del Pd di ingerirsi tramite la mediazione di Palamara nell’attività del CSM e di condizionarne gli esiti.
Per Di Matteo – come dargli torto? – queste interferenze della politica, nel caso di specie della sinistra, violano il principio della separazione dei poteri e si rivelano ancor più gravi visto che hanno ad oggetto cariche fondamentali nell’ordinamento giudiziario italiano.
Che poi, la dottoressa Ferranti dopo l’esperienza parlamentare, una volta tornata a fare il magistrato, sia stata destinata proprio a quella Corte di Cassazione le cui nomine aveva tentato di condizionare – sempre secondo la ricostruzione del PM Di Matteo – è circostanza ancor più contraddittoria. Un po’ come se il Giudice scegliesse in anticipo il “proprio” pubblico ministero. Si perdoni la semplificazione, ma si fa per rendere chiari concetti tecnici.
Doveroso ricordare che per questi fatti, la posizione della dottoressa Ferranti è stata chiarita sia in sede penale (dove non si è aperta neanche un’indagine stante il riconoscimento dell’assoluta inesistenza del rilievo penale delle chat) sia in sede disciplinare, dove il CSM pur riconoscendo il rischio in astratto di indebita ingerenza non ne ha ritrovato alcun reale portato concreto nell’attività poi esercitata dalla Ferranti quale Giudice sul cui operato nessun testimone sentito ha potuto contestare alcunché.
Dulcis in fundo, con buona pace di Di Matteo, anche il procedimento per incompatibilità ambientale è stato archiviato con 13 voti a favore e 8 contrari.
Fin qui la cronaca giudiziaria dei fatti. La Ferranti è senz’altro innocente in ogni sede. Sostenere il contrario è – come si suol dire – infondato in fatto e diritto.
Ma la vicenda lascia notevoli dubbi, soprattutto in quella parte in cui il CSM riconosce in astratto in capo alla Ferranti «una modalità di approccio all’attività consiliare idoneo in astratto a riverberarsi sulla imparzialità ed indipendenza del magistrato». In questa formula, per quanto ambigua, stanno più o meno 30 anni di storia di Italia dove una parte politica ha fatto di quella “modalità di approccio” una prassi consueta – vedremo se penalmente illecita – e di certo politicamente inopportuna, facendo della Giustizia un terreno di scontro ideologico e non un servizio fondamentale dello Stato alla comunità.
Il risultato è stato che la famosa e “gioiosa macchina da guerra” di occhettiana memoria seppur schiantata contro il muro del berlusconismo ha trovato altri campi di battaglia dove condurre le proprie altrettanto gioiose guerre di potere.