Da sempre riteniamo che il compito della Politica sia la creazione di futuro, e, proprio per questo, siamo ben consapevoli che senza un occhio attento ai giovani, non è possibile creare alcunché. Una politica votata alla difesa dell’esistente e dei privilegi in essere, che non si preoccupa del benessere e della stabilità delle nuove generazioni e che non mette in campo tutte le risorse possibili per una vera e propria rivoluzione generazionale, è una politica che ha fallito.
Ma che futuro ci può essere per i giovani se non si creano loro le opportunità per costruirsi una vita il più possibile sicura in un mondo sempre più precario, a partire dal lavoro? Proprio dal lavoro bisogna ripartire. Finito il tempo del cosiddetto posto fisso inteso come matrimonio inscindibile tra impresa e lavoratore, occorre ripensare il mercato del lavoro facendo tesoro degli errori passati, ma non rinunciando alla sfida del cambiamento. Non vi è dubbio che nel corso di questi ultimi tre decenni il mercato del lavoro abbia subito un processo di flessibilizzazione molto marcato e che ciò si sia troppo spesso tradotto in intollerabile precarietà. Bisogna invertire la tendenza, ben consci delle specificità del nostro Paese, profondamento diviso anche in questo ambito. Ad esempio, se si osserva il dato della disoccupazione giovanile, possiamo registrare un Italia divisa in due: al centro-nord siamo abbastanza in linea con la media europea, mentre al sud la situazione precipita drasticamente.
Il mercato del lavoro si delinea sempre in modo dualistico: da una parte aziende che preferiscono contratti molto flessibili che evitino la “matrimonializzazione” del rapporto di lavoro, dall’altra i giovani che, privi ormai delle speranze di poter ottenere un minimo di stabilità, spesso rifiutano addirittura di cercarselo un lavoro. Il tutto, con conseguenze intuibili per la società nel suo complesso: dalla sempre più tardiva “uscita di casa” alla sostanziale impossibilità di vivere da soli, farsi una famiglia e fare figli.
Il Governo Draghi ha tentato di fare qualcosa tramite l’approvazione del nuovo Testo Unico sull’Apprendistato, ma trattasi di poca, pochissima cosa che non incide in modo radicale sul problema.
Ad esempio, è stata introdotta una per la quale, il contratto di apprendistato può essere utilizzabile anche i fini della valutazione dell’adempimento dell’obbligo scolastico per i giovani a partire da 15 anni e per un massimo di tre anni, ma, come detto, non è in grado di far nulla per stemperare il dualismo generazionale del mercato del lavoro. Ad es. è vero che viene prevista la trasformazione ipso jure dell’apprendistato in contratto a tempo determinato se nessuna delle parti recede prima, ma è anche vero che, in assenza di incentivi in tal senso, le imprese tenderanno presumibilmente a evitare che il rapporto divenga definitivo.
La conseguenza è che si continuerà quindi con un mercato del lavoro sempre più parcellizzato in contratti “usa e getta” che, nonostante ogni tentativo di riforma, non soddisfano né le esigenze dei giovani e, medio tempore, nemmeno quelle delle aziende. Oltre a ciò c’è da considerare anche un sistema di welfare state ancora tributario di un’impostazione sociale antica e molto diversa da quella che sarebbe necessario oggi. Una società che vedeva pochi anziani e molti giovani, poteva concedersi un welfare quasi socialisteggiante (secondo i maligni, s’intende), ma oggi ciò non è più possibile, se non altro perché la proporzione generazionale si è letteralmente invertita. E con essa anche il welfare, che oggi è garantito, in forma “fai da te” dalle famiglie con uno Stato quasi assente, o comunque incapace di fronteggiare le nuove emergenze.
Il quadro restituito dall’attuale situazione del lavoro giovanile è, dunque, allibente e sconta la timidezza della politica, oltre all’arroccamento conservatore (nel senso deteriore del termine) del sindacalismo nostrano, non proprio veloce nell’adeguarsi ai tempi e, anzi, sempre più fermo nel difendere posizioni di privilegio acquisiti negli anni dagli occupati e dagli anziani (sarà un caso che, in Italia, ogni ipotesi di riforma delle pensioni susciti sempre una guerra sociale?).
Cosa si potrebbe fare? Un’idea sarebbe quella di recuperare la vecchia ipotesi del contratto unico, abolendo la distinzione tra contratto a tempo determinato e a tempo indeterminato. Si tratterebbe di un contratto da rendere vigente solo per le nuove assunzioni, al fine di non rivoluzionare troppo le condizioni di chi già è occupato ma che consentirebbe di rimodulare un sistema di flexsecurity, in cui accanto a un nucleo di diritti involabili, si accompagnino tutele proporzionali e crescenti rispetto all’anzianità del lavoratore, al merito e al valore del lavoro svolto . Roba che già in Europa è sperimentata con successo ma che qui in Italia ha avuto scarsa fortuna.
Poi, urge intervenire radicalmente sul sistema fiscale da due lati. Da una parte una modulazione delle aliquote in progressiva funzione dell’età (Più giovane si è, meno si paga di tasse) per garantire ai giovani una iniziale maggio liquidità e, quindi, di iniziare il proprio percorso di vita adulta con qualche opportunità in più. Dall’altra una riduzione delle tasse per le aziende che utilizzano queste tipologie contrattuali, che consentirebbe loro un deciso risparmio di risorse.
Infine, una seria politica di incentivi per l’imprenditoria giovanile, anche in questo caso agendo sulla leva fiscale per le nuove imprese e per i giovani professionisti, letteralmente strangolati dai balzelli impositivi (se del caso, anche mediante appositi accordi con gli Ordini Professionali).
Se queste sono le emergenze per i nostri ragazzi, e lo sono senza dubbio, ben si comprende come l’idea di certa sinistra di introdurre “il voto ai sedicenni” come meccanismo di responsabilizzazione delle giovani generazioni, si rivela quantomeno parziale se non proprio privo di senso.
Una generazione di persone disilluse, frustrate e sfiduciate non si possono responsabilizzare (solo) attraverso il voto (spesso inconsapevole, visto anche l’alto tasso di analfabetismo funzionale rilevato recentemente da Save the Children), ma accompagnandoli in un percorso formativo e lavorativo che ponga accanto ai diritti dei doveri, il cui assolvimento va valorizzato e riconosciuto nel quadro di un sistema che favorisca il merito il talento e le capacità individuali.