La linea di divisione del genere umano è tra pensanti e non pensanti. Lo disse, in questi precisi termini, Norberto Bobbio, lo riprese Carlo Maria Martini e prima di loro lo sostennero in molti, da Blaise Pascal a Immanuel Kant.
La stessa divisione attraversa la politica. Oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, manca il pensiero, inteso come rigorosa e organica architettura dei concetti, come progettazione e visione del mondo. “Vivere qui e ora” è il ritornello dei giorni nostri. Nutrirsi delle azioni immediate, delle sensazioni e delle emozioni, manipolare l’opinione pubblica per persuaderla della bontà di soluzioni in realtà effimere, è la rappresentazione plastica della contemporaneità politica.
Si è creata, così, una spirale: la spirale del “non pensiero” di chi governa e di chi è governato. Non tutti sono caduti in questo vortice, intendiamoci, ma gli uni e gli altri sono in aumento. Il cortocircuito che ne consegue è tanto grave quanto la spirale che lo precede. La mancanza di pensiero determina l’assenza dei fini dell’azione nel medio e lungo periodo. Gran parte dei politici non hanno la più pallida idea di dove e come sarà il Paese fra dieci o vent’anni, come portarlo ad essere qualcosa, cosa farlo essere. Questo buio condiziona tutti gli ambiti pubblici e quindi anche le politiche economiche, sociali, tributarie, sulla spesa pubblica, su formazione e ricerca scientifica e via via.
Il Governo in carica è l’emblema di questo abisso, anzitutto culturale: dalle riforme costituzionali al sistema elettorale, dal fisco agli investimenti, dalla giustizia alla gestione delle crisi imprenditoriali, dalle banche alle infrastrutture, è un susseguirsi di annunci e cambi di marcia, di canti e controcanti, di proposte senza visione strategica e figlie della demagogia. Di qui l’esigenza di rimettere il pensiero al centro di ogni azione perché solo politiche nuove, intrise di progettualità e rigore potranno arginare la “liquidità” dei tempi moderni e la crisi strutturale nella quale è sprofondato il Paese.
Per mettere in campo politiche “solide”, seppure lontane dai falsi e sanguinari nazionalismi del novecento, è indispensabile avviare una vera e propria “rivoluzione”: nuovi modelli di stato sociale, che premino le libertà individuali e riducano grandemente i monopoli legali, compresi quelli statali; un fisco semplice, prosciugato e rinnovato dalle fondamenta, che diventi pungolo per l’economia e la crescita, stimolo per gli investimenti interni e internazionali; una diversa, ridotta e finalmente efficiente distribuzione delle risorse pubbliche, con drastica diminuzione di quelle destinate all’assistenzialismo e alla spesa improduttiva; una scheletrica imprenditoria di stato a favore della concorrenza; una magistratura e una giustizia anch’esse rinnovate dalle fondamenta; il diritto positivo riscritto seguendo gli insegnamenti del realismo giuridico; il rafforzamento e la responsabilizzazione delle autonomie territoriali; un nuovo progetto europeo di stampo federale; politiche internazionali di aiuto ai Paesi poveri, con rinnovate alleanze, e politiche migratorie ispirate alla legalità degli accessi e della permanenza sul territorio italiano.
Proposte da libro dei sogni, queste? La speranza, in verità, è che nel 2020 la discussione politica possa cambiare marcia e finalmente aprire una nuova stagione, la stagione del “Buongoverno”. Con un rinnovato Parlamento e un nuovo Esecutivo che sappiano finalmente premiare le libertà, alle quali le proposte scheletricamente indicate si legano a filo doppio. E allora, con questa speranza, buon anno!