Cosa accadrà a Roma ora che Helsinki e Stoccolma stanno per formalizzare la richiesta di adesione alla Nato e ciascun paese membro dell’Alleanza Atlantica dovrà dar loro una risposta? L’ingresso nell’organizzazione di difesa militare occidentale di due paesi fin qui “terzi” come Finlandia e Svezia, che avevano fatto della neutralità lo strumento per assicurarsi rapporti di buon vicinato con l’Unione Sovietica prima e con la Russia poi, è destinata a cambiare la geografia politica dell’Europa.
Insomma, il Governo e il Parlamento italiani dovranno decidere se dare o meno l’assenso a qualcosa di straordinariamente importante, se non epocale. Lo faranno? E come? Interrogativi non proprio peregrini, alla luce di quanto la politica italiana ha fatto vedere in questi ormai quasi tre mesi di guerra scatenata da Vladimir Putin in Ucraina. Diremo di no, allineandoci a quanto sembra voler fare la Turchia di Erdogan, che gioca spregiudicatamente a fare il non allineato pur stando dentro la Nato? Difficile. Diremo di sì, senza se e senza ma, come peralro doveroso in una circostanza del genere? Difficile, visto il rischio di clamorose spaccature dentro la maggioranza di governo e, soprattutto, all’interno di alcuni partiti. Faremo i furbi, aspettando la pronuncia negativa di qualcuno, nascondendoci dietro il fatto che per dare il via libera all’adesione di un nuovo membro nella Nato il consenso deve essere “unanime” (articolo 10 del Trattato di Washington)?
Chissà. Invero, da questo punto di vista esisterebbe pure un precedente della nostra ignavia decisionale. Nell’aprile 2008, complici le elezioni anticipate seguite alla caduta del governo Prodi e che riportarono Berlusconi a Palazzo Chigi, attendemmo che Angela Merkel, con la complicità di Nicolas Sarkozy, minasse le intenzioni dell’allora presidente americano George Bush di portare proprio l’Ucraina e la Georgia nell’Alleanza Atlantica. E la posizione preannunciata dall’ineffabile Conte sull’allargamento della Nato (“è chiaro che può avere delle implicazioni, ma non mi sento di offrire una risposta negativa”) fa presagire che si tenterà di replicare quanto avvenne 14 anni fa.
Oppure diremo “sì, ma”, cavillando per esempio sui tempi di ingresso dei due Paesi, cui sarà sicuramente riservata una corsia preferenziale e una procedura accelerata? E’ fortemente plausibile, e i continui distinguo di Conte e Salvini – ma anche di qualche esponente del PD – in queste settimane sull’invio di armi a Zelensky, sono foschi presagi in questo senso. Il rischio è proprio quello di rifugiarsi dietro un cavilloso tecnicismo giuridico in nome di un non meglio declinato pacifismo, utilizzando come alibi a reazione rabbiosa del Cremlino al preannuncio dei due paesi scandinavi per ammonire “così scateniamo la Terza guerra mondiale” (come se non fosse già stata dichiarata da Putin). E se ad andare in questa direzione è un moderato come il ministro Giorgetti,che ieri se ne è uscito asserendo che “l’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato surriscalda gli animi dalle parti di Mosca e sicuramente non aiuta ad abbreviare il conflitto” (anche se poi ha sommessamente aggiunto che si tratta di “questioni forse troppo grandi per la mia capacità di valutazione”), allora è inevitabile dedurre che il peggio è dietro l’angolo.
In realtà, una “crisi di politica estera” è già in atto, nonostante nel giro di pochi giorni il presidente Draghi abbia dato inequivocabile dimostrazione di come l’Italia non sia il tappetino di Bruxelles e Washington. Prima, in una sede solenne come il Parlamento Europeo, affermando la necessità di modifiche profonde nell’architettura comunitaria (dai meccanismi decisionali, all’adozione del metodo comunitario rispetto a quello inter-governativo e, infine, promuovendo un vero e proprio approccio federale su questioni oggi dirimenti, come difesa ed energia); poi, in occasione della visita a Washington, Mario Draghi ha invitato – anche a nome delle maggiori cancellerie europee – il presidente americano Biden a compiere maggiori sforzi per battere la pur impervia strada della trattativa con Putin al fine di arrivare se non alla pace, almeno ad un cessate il fuoco. Circostanza che ha indotto il Washington Post a parlare di “differenze sulla guerra in Ucraina” pur nel solco di una “storica amicizia” fra Italia e USA.
Dunque, due passaggi non scontati, che avrebbero dovuto bagnare le polveri di contestatori che sono arrivati a coprirsi di ridicolo distinguendo tra armi offensive e armi difensive pur di cavalcare alcuni sentimenti di parte dell’opinione pubblica che, nel migliore dei casi, teme gli effetti collaterali della guerra – dalle interruzioni energetiche all’insicurezza alimentare – e nel peggiore dei casi, simpatizza più per l’aggressore che per l’aggredito. E invece ancora si polemizza per il fatto che Draghi, giustamente, non intenda sottoporre a nuovo voto (rispetto a quello di marzo) da parte delle Camere le decisioni assunte dal governo circa gli aiuti militari a Kiev, limitandosi a una informativa.
In questo clima, un voto parlamentare sull’adesione di Finlandia e Svezia alla Nato può davvero trasformarsi in un Vietnam. Eventualità pessima per l’immagine dell’Italia, ma buona se servirà a rompere le ipocrisie su cui si reggono coabitazioni spurie all’interno dei partiti. Si prendano le due dichiarazioni del ministro Di Maio ieri a margine del G7 in Germania per il quale “Italia sostiene con forza l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, siamo ben lieti di accoglierli nell’Alleanza che ha garantito la pace per decenni” e, ancora “le armi che l’Italia fornisce a Kiev rientrano nel principio della legittima difesa” e le si comparino con quanto va dicendo il capo dei cinque stelle. La contraddizione appare subito evidente, malgrado i tentativi maldestri dell’avvocato azzeccagarbugli Conte di imputare le evidenti divergenze alla stampa “maliziosa”.
Piaccia o non piaccia, la nuova pregiudiziale traccerà una linea di demarcazione netta fra chi sta dalla parte dell’euro-atlantismo, seppur variamente declinato, e chi, invece sta dall’altra, rappresentata non solo dall’esplicito filoputinismo autocratico ma anche e soprattutto dal neutralismo fintopacifista di chi sta “né con la Nato né con Putin”, ma che spera nella resa incondizionata di Kiev. Non ci sarà spazio per i distinguo, tantomeno per i “né, né”. E il fenomeno, cui sarà impossibile sottrarsi, sarà tanto più forte perchè Roma è, con Berlino, la capitale europea su cui in questi anni, specialmente in epoca gialloverde, Mosca ha più investito, alimentando un torbido acquitrino russofilo. L’ambizione di Putin di voler ridefinire gli assetti geopolitici mondiali, infatti, ha come effetto collaterale quello di ridare all’Italia, suo malgrado, la centralità che era venuta meno con la fine della vecchia guerra fredda, decretata dalla caduta del muro di Berlino e dal crollo dell’impero sovietico. Ma questo impone nuovi vincoli, come quelli che fino al 1989 impedirono al partito comunista più forte d’Occidente di andare al governo.
Una cosa comunque è certa: questa discriminante, imposta dalla drammaticità delle circostanze, non consentirà alle due coalizioni, centrodestra e centrosinistra, su cui si articola il sistema politico italiano, di sopravvivere a se stesse, perchè su una questione preliminare come quella dello schieramento di campo nella politica internazionale, sono attraversate da differenze insanabili. Prenderne atto ora, significherebbe arrivare alle prossime elezioni avendo fatto chiarezza a favore degli elettori. Far finta che il problema non esista porterà invece a un disastro per il Paese. In entrambi i casi, l’attuale sistema politico verrà terremotato. Meglio prepararsi.