Come è potuto accadere che l’Europa diventasse così dipendente dalla Russia per l’energia e non soltanto? A coloro che hanno favorito l’interscambio con Mosca non è mai venuto il sospetto di avere infilato “la testa nella bocca del leone”? Gli interrogativi che si pone Angelo Panebianco in un lungo editoriale uscito sul «Corriere della Sera» sono gli stessi di tutti noi. L’intera Europa (chi più chi meno) sembra come appesa alle mammelle della Russia. E l’Italia non fa certo eccezione, anzi forse è l’anello debole della catena. Il ventre molle dell’Ue.
Negli anni il nostro Paese ha coltivato buoni rapporti con Mosca e per tutta una serie di motivi. La madre delle cause? La convenienza: gli affari erano davvero buoni. Sia per il prezzo del petrolio che del gas. E “gli affari sono affari, si dice, e pecunia non olet, i soldi non hanno odore. Ma non tutti gli affari sono uguali”, scrive Panebianco. Eppure i segnali che le cose potessero prendere una brutta piega c’erano eccome. Perlomeno dall’attacco alla Georgia del 2008. In maniera ancora più evidente con la conquista della Crimea (2014). Difatti “per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale una grande potenza violava la regola tacita secondo cui la pace in Europa richiede che i cambiamenti di confine siano sempre decisi consensualmente”, osserva Panebianco. Anche allora nessuno si preoccupò di spezzare la catena di dipendenza dalla Russia: sarebbe stato troppo forse fare i conti con le proprie fragilità. Ma non è stata solo una questione di interessi, liquidare la faccenda così sarebbe un errore. Anche in questo caso vale “la regola generale secondo cui gli interessi sono potentemente condizionati dal clima politico-culturale prevalente. Quel clima spinge gli interessi in una direzione o nell’altra, incentiva o disincentiva certi investimenti, favorisce l’ingresso in certi mercati, rende più difficoltoso l’ingresso in altri”.
Panebianco cita Montesquieu per far comprendere ai lettori l’illusione di cui spesso sono vittime le società aperte quando trattano con le autocrazie. “È un’idea antica, presente in Occidente fin da quando Montesquieu nel Settecento scrisse che il commercio ingentilisce i costumi, quella secondo cui l’interscambio economico, e l’interdipendenza che ne risulta, può favorire la pace. Un’idea corretta. Ma che diventa sbagliata se viene estremizzata, se ci porta a pensare che sia sufficiente un’elevata interdipendenza economica perché i problemi politici e geopolitici scompaiano”. Ed è di questa concezione errata che sono figli gli sbagli commessi dall’Occidente. Il pensiero che la Russia non fosse più una minaccia, che si stesse avvicinando alle democrazie di stampo occidentale. I tempi di Pratica di Mare (2002), per intenderci.
Grave leggerezza aver sottovalutato Putin, che nel frattempo covava il sogno di diventare uno zar di vecchio stampo, bramava di costruire un un sistema autocratico personale. Un po’ per quieto vivere, un po’ per fiacchezza di spirito, l’Europa ha ignorato la minaccia. Ad aprire gli occhi a tutti l’invasione dell’Ucraina. Un conflitto che ha messo in evidenza tutte le debolezze dell’Italia, che è “da sempre attraversata da robuste correnti antioccidentali, di destra e di sinistra, afflitta da un antiamericanismo tenace e dotato di proprietà camaleontiche, cucinato in varie salse politiche. Ne consegue l’ostilità alla Nato, un sentimento ‘trasversale’, presente a destra e a sinistra, nonché in settori consistenti del mondo cattolico”, scrive Panebianco sul «Corriere della Sera». A distanza di un mese dall’invasione russa la nostra classe politica è spaccata in due: “chi vuole e chi non vuole togliere la testa dalla bocca del leone”. Per la serie ‘meglio tardi che mai…’.