Davanti alla tv, allo schermo di uno smartphone, vedendo le immagini che arrivano da Kiev, Mariupol, Cherson, Odessa, Charkiv, forse anche solo per un istante vi sarà passato per la testa un pensiero: se al posto dell’Ucraina ci fosse stata l’Italia saremmo stati in grado noi tutti di imbracciare un fucile, morire per un’idea, una fede, per la patria?
A voce alta avremmo risposto di no perché il nostro Paese è una democrazia che rifiuta la guerra in quanto tale; intimamente, forse provandone anche un senso di vergogna, avremmo risposto di no ma perché consapevoli di non esserne capaci. Non siamo come i nostri nonni e bisnonni: le notizie che arrivano dall’Ucraina ci pongono di fronte a questa spietata realtà, spostano le lancette dell’orologio indietro. Ed è un tuffo nel Novecento che fa venire le vertigini a guardarci dentro perché ci fa comprendere che non siamo disposti a morire per nessun ideale. Troppi gli agi, i comfort da lasciare. I miracoli del boom economico, di quel consumismo che a poco a poco ha rosicchiato ogni valore, è come se c’avessero spinti in una sola direzione: noi stiamo seduti in salotto, la guerra è altrove.
Come scrive Giovanni Bellardelli in un articolo bellissimo uscito su «Il Foglio», dal titolo «Cosa ci manca per accettare la morte in guerra: un’idea, una fede, un valore», “i due conflitti mondiali del Novecento, e soprattutto il secondo con le sue decine di milioni di morti tra civili e militari, hanno molto contribuito a generare nei paesi dell’attuale Unione europea un particolare orrore per il ricorso alle armi. Nella sua essenza la guerra consiste nel mettere in gioco vite umane, dunque nell’uccidere e nel morire. Per accettare l’una cosa e l’altra bisogna potersi appoggiare a un valore condiviso, che trascenda la vita del singolo. Questo valeva per le truppe di Enrico V d’Inghilterra che si apprestavano a combattere ad Azincourt durante la Guerra dei cent’anni così come valeva per i patrioti che durante il Risorgimento tentavano, magari illudendosi, di sconfiggere con un’insurrezione armata gli Asburgo o i Borboni”.
I giovani di allora non c’avrebbero pensato su due volte a partire per il fronte, a dare la propria vita. “Ecco, un’idea, un valore, una fede per cui valga la pena morire (e uccidere, non dimentichiamolo) da tempo non li abbiamo più. O almeno abbiamo idee, fedi, valori troppo debolmente sentiti per giustificare la perdita del principale bene individuale: la vita”, sottolinea il giornalista. Tant’è che a noi frasi, come “Vengo a morir per la mia patria bella”, che commuovevano i volontari della Prima Guerra Mondiale, ci strapperebbero forse un sarcastico sorriso. Non son parole nostre, non le sentiamo nostre.
E dietro c’è tutta una serie di ragioni: a cominciare “dalla torsione militarista e aggressiva che l’idea di nazione ha assunto per colpa del fascismo”, scrive Bellardelli. E le guardiamo addirittura con sospetto. In sostanza il sentimento di appartenenza nazionale si «è scolorito» come una maglia qualsiasi indossata troppe volte e finita in lavatrice altrettante. “Il benessere ha fatto il resto, (…) rendendoci poco disponibili – sia detto come constatazione e senza alcun giudizio moralistico – a sacrificare l’esistenza in una guerra ancorché di difesa”, osserva Bellardelli. E sono pienamente d’accordo con lui. Un cambiamento culturale che ovviamente non ha interessato solo l’Italia, ma anche gli Stati Uniti, che in altri tempi mai avrebbero tollerato l’idea di veder morire i propri cittadini in un conflitto bellico. È un’«anomalia» dunque l’Ucraina in questo mondo? Forse è l’ultimo “paese animato dall’idea che la propria libertà e la terra vadano difese a ogni costo”.