Sono anni che il presidente russo Putin è ossessionato dal suo passato. Almeno da quando, con la disintegrazione dell’Unione Sovietica, la Russia visse la profonda ferita della perdita della sua sfera di influenza. “La più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”, come l’ha definita una volta. Per il giovane ufficiale del KGB in Germania Est tra l’89 e il ’91, quel crollo fu una traumatica sconfitta personale. Al suo ritorno in patria, Vladimir fu costretto a fare il tassista per svoltare la giornata. Un destino di povertà e umiliazione vissuto da tanti russi e reso ancora più inaccettabile dalla trionfale avanzata (allora) dell’Occidente e dall’affermazione globale del suo modello economico di sviluppo.
I semi del revanscismo del capo del Cremlino, il più longevo leader russo dopo Stalin, da allora germogliano nella retorica sulla “liberazione” della Ucraina. Ancora nel 2008, Putin diceva a Bush figlio che “la Ucraina non è ancora una nazione”. Nella mente dello zar, il popolo ucraino è pro-russo, è stato manipolato dagli occidentali. Da qui le accuse rivolte a Kiev di volersi dotare dell’arma nucleare, il governo ucraino bollato come “neo-nazista” il riconoscimento della indipendenza delle regioni separatiste, e quindi l’invio dei “peacekeepers” russi nelle province considerate ribelli, fino all’assurda dichiarazione del fidato Lavrov sulla “operazione in Ucraina che non è l’inizio di una guerra, ma un tentativo di prevenire una guerra mondiale”.
La visione secondo la quale gli occidentali possono capire solo il linguaggio della forza è il riflesso condizionato della formazione da judoka ed ex Kgb di Putin, e ancora più in profondità il portato della sua storia familiare: la famiglia popolare a San Pietroburgo, le botte a scuola tra compagni, “se combattere è inevitabile, colpisci per primo”, disse nel 2015.
Il revival della grandezza passata diventa la base della politica presente. Con la invasione dell’Ucraina, l’inconscio represso prende il sopravvento e Putin attraversa il suo Rubicone entrando nella “dark side” della Storia. Il desiderio di rivincita dopo anni trascorsi a osservare la lenta inesorabile avanzata della Nato verso Est e la convinzione di intervenire in Ucraina perché se no ‘Kiev sarà nel Patto Atlantico tra 10 o 15 anni’ sono un meccanismo psicologico potente quanto ‘delusional’, ancor prima che un progetto geopolitico di stampo nazionalista. Lo stesso meccanismo ha portato all’annessione della Crimea come reazione alle “Rivoluzioni arancioni” del 2005 e del 2014 (bollate anch’esse come un “complotto occidentale”). Da allora, oltre 14mila morti nella guerra con Kiev.
Samuel Huntington divenne celebre per il suo saggio sullo scontro di Civiltà. Huntington diceva che la principale causa dei conflitti nel mondo post-Guerra fredda sono le identità culturali e religiose. Ma questa collisione ancor prima che tra popoli in guerra può avvenire nella testa o meglio nella identità dei leader che guidano un popolo. Leader che nel loro delirio totalitario s’illudono di poter fermare la Storia tornando indietro nel tempo.