Parlare di cinema con gli addetti ai lavori mette i brividi. Il Covid è stata una mazzata che tra sale chiuse e boom delle piattaforme streaming ha sconvolto un settore che deve profondamente ripensare se stesso. Domani, non in futuro. Nel 2021 hanno chiuso 500 grandi schermi (-20%) ed è stato perso il 70% del mercato tra incassi e presenze, ma non è tutta colpa del Covid. Un dato più di altri fa riflettere: su 353 uscite nel 2021 meno della metà erano film italiani, per un totale del 20% sugli incassi concentrati sui primi 5 titoli.
Ora si può anche ritenere che nel nostro Paese escano dozzine di capolavori incompresi dal grande (sic) pubblico. Ma più realisticamente l’impressione è che se tutto cambia a cambiare deve essere anche un pezzo della nostra industria culturale che per troppo tempo è stato sussidiato e sussidiato male. Con i soliti aiuti indiscriminati a pioggia che certo servono a sostenere il lavoro di registi, attori, maestranze e filiere ma non debbono trasformarsi in una specie di reddito di cittadinanza, perché così non ci sarà una vera prospettiva di sviluppo economico del settore. Qualcuno ha scritto che è inimmaginabile un mondo senza cinema ed è vero che le sale potrebbero essere luoghi dove non si va solo per guardare il film così come ormai non si va allo stadio solo per vedere la partita.
Logica vorrebbe che ad essere premiato fosse chi è capace di ammodernare le sale con spazi di lavoro, ristorazione, lettura, con più flessibilità nella programmazione e più apertura verso il mondo esterno, scuole e dell’università, per fare un esempio. Ma per riuscirci serve aggiornare i criteri di allocazione della spesa favorendo chi è capace d’inventare, innovare e soprattutto di fare prodotti di qualità. Ovvero film capiti anche dal pubblico pagante. Governo, Parlamento ed enti locali possono giocare un ruolo nel “new deal” del cinema italiano, ma a patto di cambiare rotta e guardare un po’ più in là di mascherine e della fine dell’emergenza.