Di Bruna Lamonica e Lara Attandemo
La violenza contro le donne rappresenta un globale ed importante problema di sanità pubblica, oltre che una grave violazione dei diritti umani.
Un recente documento delle Nazioni Unite ha riportato un incremento dei casi di violenza di genere durante la pandemia da Covid-19, affermando che la maggior parte di essi avviene in famiglia, da parte di mariti o ex o conoscenti, e non deriva da raptus di soggetti violenti.
Il processo discriminatorio a cui la donna è stata ed è tuttora sottoposta rimarca l’atteggiamento mentale patriarcale non solo di gran parte degli uomini, ma anche di larga fetta della popolazione femminile. Il contrasto alla violenza di genere deve, pertanto, diventare sempre più una questione socio culturale che riguarda trasversalmente la famiglia, le classi sociali, le intere comunità.
Il Piano Strategico Nazionale sulla violenza contro le donne ha come obbiettivo quello di colpire le radici della cultura della violenza, attuando politiche rivolte al campo dell’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza. Intende diffondere la cultura del rispetto che previene la violenza stessa, attuando programmi integrati che coinvolgano scuola e famiglia, aumentando il monitoraggio dell’aspetto linguistico e tematico, veicolando le informazioni che contengono in maniera esplicita o velata stereotipi di genere, immagini e linguaggi sessisti.
Ma è indubbio che l’attenzione nei confronti della violenza di genere deve crescere ancora. Le associazioni e i centri antiviolenza, nati al fine di supportare donne maltrattate permettendo un graduale recupero dell’autonomia, hanno un ruolo centrale in queste dinamiche e come tali hanno bisogno di finanziamenti immediati e a programmazione pluriennale. Il presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e sui servizi antiviolenza ha rilevato che i finanziamenti per tali centri e per le case rifugio sono aumentati, ma che non sono realmente arrivati a destinazione per l’intero. Servono, quindi, programmazioni e trasferimenti in tempi celeri, oltre all’impegno di stringere intese vincenti tra Stato e Regioni.
La relazione ufficiale sul bilancio di genere per l’esercizio finanziario 2019, che contiene un monitoraggio dei divari di genere e un’analisi delle principali politiche tributarie, oltre che ad una riclassificazione contabile delle spese secondo una prospettiva di genere, rivela che il nostro Paese rimane l’ultimo in Europa in termine di divari nel dominio del lavoro; che il forte radicamento culturale dei diversi stereotipi su immagini e ruoli di genere vede attribuire alla donna quello principale della cura della casa della famiglia; che ben il 53% delle donne ha interiorizzato tale stereotipo. L’asimmetria di genere nella distribuzione delle responsabilità e delle cure domestiche e familiari comporta inevitabilmente l’impossibilità di conciliare l’occupazione femminile di qualità con tali cure, soprattutto se manca un supporto di reti familiari.
Nella sopra citata relazione trova poi ampio spazio il riferimento al fenomeno della violenza che ha origine negli squilibri di potere profondamente radicati nelle norme sociali e culturali. La violenza economica è una delle maggiori violazioni dei diritti umani, in quanto colloca la donna in una condizione di forte dipendenza che consente all’uomo di trattarla come oggetto di proprietà, essendo lui quello che provvede alle necessità economiche della famiglia.
L’attuale Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ha disegnato le linee guida aventi tra le missioni prioritarie la riduzione dei divari di genere. Questo piano, tuttavia, non ha ancora chiarito con quali strumenti e con quante risorse si vuol procedere. Le linee progettuali centrate sulla parità di genere, infine, non si focalizzano sull’imprenditorialità femminile, sulla difficoltà delle donne di accesso e di carriera nel mondo del lavoro, sui differenziali retributivi, sulla discriminazione ed iniquità. Si concentrano, invece, su temi sì importanti come famiglia e asili nido, ma che confinano, ancora una volta, la donna in certi settori e in determinate mansioni.
Le ragioni culturali ed istituzionali impediscono la promozione della donna nel mercato del lavoro, perché il problema non viene trattato sotto la luce giusta: ammodernamento del paese e discriminazione presente nell’offerta. Occorrono azioni concrete che promuovano riforme di innovazione al sistema educativo, affinché i talenti delle rappresentanti della metà della popolazione possano essere utilizzati in modo efficiente, destinando ad essi livelli di produttività non inferiore a quegli degli uomini.
Bisogna puntare sulla selezione meritocratica, abbattendo il pensiero discriminatorio che nasce dal fatto che una donna, in quanto tale e ancora peggio se madre, non possa dedicare il proprio impegno al lavoro di qualità o non possa configurare ai vertici di aziende di prestigio. E’ il considerare la donna come un “uomo inabile” che permette l’avvio di tutta una serie di mancanze e di valutazioni scadenti e che pone le basi di un sessismo troppo spesso sfociato in violenza.