di Alessandro Cini
Ha ragione Claudio Fava, siciliano, politico, ma soprattutto figlio di un padre ucciso dalla mafia.
Con chi vogliamo prendercela se a Catania l’esponente di un partito politico tratteggia la peggiore feccia di questo Paese come una nobile compagnia di antichi cavalieri che, in attesa del Santo Graal, hanno perduto sensibilità e coraggio? “Che Paese è ormai questo?” si chiede Fava. Già, che Paese è ormai questo?
In attesa di un risposta esaustiva, mi raccomando: teniamocele strette le rendite derivanti dalle definizioni di destra e sinistra. Teniamocele strette soprattutto quando saremo tutti chiamati, prima o poi, a combattere in prima persona la criminalità organizzata declinata in ogni sua variante territoriale e in ogni forma. Quando anche la legge non sarà più sufficiente ad arginare i peggiori fenomeni distorsivi innescati dalla cultura della violenza e della sopraffazione, abbracciamo ancora una volta la nostra ideologia, vecchia e malata, come la coperta di Linus.
Difendiamo i nostri maleodoranti barili di benzina come soldati fantasma giapponesi su un atollo del Pacifico. Ecco, mentre decidiamo da che parte stare, quale esatta nuance indossare per la collezione parlamentare “autunno-inverno”, quali misurate parole utilizzare, quale stigma dare ai nostri pensieri, mentre cincischiamo sul da farsi, ragionando sul cosa significhi una politica “di destra o di sinistra” nell’approcciare a questa oscura materia chiamata mafia,ricordiamoci anche cosa abbiamo fatto a questo Paese.
Noi e le nostre “idee”. Teniamo bene a mente come abbiamo permesso a qualcuno, al suo smisurato ego e al suo misero tornaconto elettorale, di utilizzare la lingua e il gergo della violenza. Riportiamo alla memoria l’istante in cui abbiamo consentito che la politica divenisse un distillato di odio incontrollato, un sentimento ormai talmente fuori misura da innescare l’applauso del pubblico tifoso convocato ad assistere a tristi comizi organizzati a uso e consumo dei social. In tutto questo, con un po’ di amor proprio, sarà inevitabile pensare a chi abbiamo affidato il nostro stramaledetto “voto di protesta”.
Rassicurati dalle straordinarie funzioni del nostro smartphone – perché oggi siamo le funzioni del telefono che gestiamo -, magari avremo anche il coraggio di assolverci, senza neanche comprendere che le parole, anche quelle pronunciate in un caldo, distratto, pandemico autunno siciliano, si incarnano, diventando uomini, trasformandosi in azioni.