Chi rimane ad accusare Putin dei suoi crimini? In patria gli oppositori vengono eliminati, all’estero molti se non lo supportano direttamente, sono comunque propensi al beneficio del dubbio. Poco importa la guerra in Ucraina, poco importa se anche un militante per i diritti civili, Oleg Orlov, viene condannato perché si è permesso di scrivere un articolo contro la guerra in Ucraina.
Il parallelo tra l’attuale scenario politico internazionale e il periodo precedente alla Seconda Guerra Mondiale non può essere ignorato. Così come allora, molti sono inclini a scagionare Putin e a concedergli il beneficio del dubbio, nonostante le gravi accuse di violazioni dei diritti umani e repressione politica. L’indifferenza predominava allora, proprio come oggi, e la mano dura di Putin non suscita sempre il dissenso che ci si aspetterebbe in un contesto democratico.
Tra coloro disposti a concedere fiducia a Putin si annoverano i dirigenti attuali o potenziali delle tre maggiori democrazie globali. In questo contesto, non si fa riferimento alla Bielorussia di Lukashenko, ma a nazioni con robuste istituzioni democratiche, dove si è appena tenuto o si sta per tenere un processo elettorale democratico. Al vertice di questa lista ci sono gli Stati Uniti, dove c’è l’angoscia diffusa a livello globale che le elezioni presidenziali del prossimo 5 novembre siano vinte da Trump. Seguono l’India, dove il nazionalista religioso Narendra Modi ha recentemente ottenuto una vittoria schiacciante, e l’Indonesia, la terza democrazia più popolosa al mondo, dove ha trionfato il generale Prabowo Subianto, figura dominante del momento. L’espressione “angoscia diffusa” non è casuale; ciascun paese reagisce secondo le proprie motivazioni.
Donald Trump ha menzionato il caso Navalny in un post, ma con toni che, anziché indicare una responsabilità di Putin, sembrano quasi giustificarla. Ha manipolato la vicenda per affermare di essere lui stesso, Trump, e non Navalny, il vero “perseguitato politico”. Ha preso di mira una serie di figure, definendole “politici farabutti radicali di sinistra, procuratori e giudici che stanno conducendo il paese verso la distruzione”. Ha criticato aspramente “le politiche di frontiere aperte, le elezioni manipolate e le decisioni ingiuste dei giudici”, che secondo lui stanno minando gli Stati Uniti e portandoli verso un declino imminente. Trump ha scritto su Truth Social: “La repentina morte di Alexei Navalny mi rende ancora più consapevole di ciò che sta accadendo nel nostro paese”. Solo in un secondo momento ha accennato fugacemente al coraggio di Navalny, dichiarando: “Non riesco a capire perché sia tornato”, un commento che suona ambiguo e ambivalente, oscillante tra l’insinuazione di imprudenza e quella di stupidità.
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Trump ha una storia di scambi di complimenti con Putin. In passato lo aveva definito “piuttosto intelligente” mentre si preparava a invadere l’Ucraina. Ora ha mandato un brivido lungo la schiena di tutta l’Europa rivelando di aver detto a Putin, da presidente, che “poteva fare ciò che voleva” con gli alleati NATO che non rispettavano gli impegni di spesa militare. Trump d’altronde non ha mai nascosto la sua posizione isolazionista: l’America prima di tutto, mentre gli altri devono cavarsela da soli. Questo è un atteggiamento che rispecchia la tradizione dei repubblicani americani. Anche se, per trovare estremismi simili, bisogna tornare al periodo precedente alla Seconda guerra mondiale, quando gli avversari del presidente democratico Roosevelt – simili a Trump di oggi – sostenevano che gli europei dovessero affrontare Hitler senza coinvolgere gli Stati Uniti. Questo atteggiamento veniva sostenuto anche dalla potente macchina mediatica conservatrice dell’epoca.
In Indonesia, un generale noto per il suo atteggiamento autoritario e con un passato caratterizzato da violazioni dei diritti umani ha trionfato nelle elezioni. Questo fatto di per sé è preoccupante, considerando che l’Indonesia è stata teatro, negli anni ’60, di uno dei più gravi genocidi etnico-politici del Novecento. Dopo il colpo di stato militare del generale Suharto contro Sukarno, circa un milione di cinesi e comunisti furono massacrati in modo brutale. Ancora più inquietante è il fatto che il generale Prabowo Subianto sia noto per la sua ammirazione nei confronti di Putin. Ha proposto un piano per risolvere il conflitto in Ucraina, bollato da Kyiv come “piano russo”. Secondo il Jakarta Post, molti elettori indonesiani che “simpatizzano fanaticamente per Putin” hanno votato per il generale. In India, Modi è stato un po’ più cauto, criticando pubblicamente Putin e dichiarando che “oggi non è il momento delle guerre”. Tuttavia, nonostante ciò, si è avvicinato a Putin come un mediatore neutrale, tanto che quest’ultimo lo ha definito “un uomo molto saggio”.
Altri leader politici eletti democraticamente, che all’inizio si proponevano come potenziali mediatori attivi nel conflitto tra Russia e Ucraina, hanno successivamente spostato il loro sostegno a favore della Russia. La Turchia sotto Erdogan e l’Iran sotto gli ayatollah sono entrambi paesi con un sistema di voto, ma la loro qualità democratica è incerta. Un’altra democrazia incerta è l’Ungheria sotto Orbán, che ha vinto le elezioni ma successivamente ha eliminato tutti i contrappesi che caratterizzano una democrazia, come la libertà di stampa e un sistema giudiziario indipendente. Non è un caso che l’Ungheria, all’interno dell’Unione Europea, sia il paese più incline a sostenere Putin. In Russia stessa, dove le elezioni presidenziali sono imminenti, la democrazia è quasi inesistente. La Cina, la seconda nazione più popolosa al mondo (che ha recentemente superato l’India), non si definisce democratica nel senso tradizionale del termine. Non ci sono elezioni, né campagne elettorali per i leader, e il presidente a vita Xi Jinping mostra chiari parallelismi nel suo modo di governare e reprimere gli oppositori con Putin.
Il paragone storico è forte, ma necessario per comprendere come spesso si sottovalutino i rischi, anche internazionali, nel lasciar agire figure dittatoriali. Hitler beneficiò per un lungo periodo di una neutralità benevola e attendista nelle capitali del mondo libero e democratico. I nazisti godevano di un seguito significativo in America, in Inghilterra, in Francia e anche nell’Europa orientale. Negli Stati Uniti, figure di spicco come Henry Ford, Charles Lindbergh, Joseph Kennedy (padre del futuro presidente) e il popolare predicatore radiofonico padre Charles Coughlin esprimevano simpatie aperte per Hitler, criticando aspramente la “sinistra” rappresentata da Franklin Delano Roosevelt. Con lo scoppio della guerra mondiale, la destra si sarebbe spesso mascherata da pacifismo estremo, rifiutando non solo un coinvolgimento (“nessun soldato americano per l’Europa”), ma anche qualsiasi aiuto all’Inghilterra sotto attacco. In Inghilterra, persino l’erede al trono, Edoardo (costretto a rinunciare alla corona a causa del suo desiderio di sposare un’americana divorziata), nutriva simpatie per i nazisti. L’idea che Hitler potesse essere gestito, che non rappresentasse una minaccia e potesse persino essere un deterrente contro il comunismo, veniva sostenuta persino dopo l’appeasement del 1938 a Monaco, quando il primo ministro Neville Chamberlain, vantandosi di aver ottenuto “la pace del nostro tempo”, cedette alla Germania nazista la democratica Cecoslovacchia con le mani legate.
Ricordare il passato è fondamentale per evitare di ripetere gli stessi errori. L’Europa degli anni ’30 ci insegna che la simpatia per i regimi autoritari può portare a conseguenze disastrose per l’intera umanità. È essenziale che i leader attuali e futuri comprendano l’importanza di difendere i valori democratici e i diritti umani, anche quando ciò significa confrontarsi con figure come Putin e le loro politiche oppressive.