Società aperta questa sconosciuta. Il sistema politico italiano ha deciso di escludere sistematicamente questo pezzo di società. C’è un effetto contro congiunto. Da un lato il bipolarismo bipopulista con le sue sterili e insignificanti contrapposizioni ideologiche e dall’altro un arcipelago di piccole isole del campo liberaldemocratico incapaci di costruire la reale alternativa che sappia essere rappresentante e interprete di questa parte di elettorato.
Non è solo la semplice rappresentanza di categorie, gruppi sociali ecc, ma principalmente della cultura politica che ne sta alla base, cioè i tratti fondamentali della società liberale che rappresenta l’unico assetto complessivo in grado di riformarsi, in grado di continuare a rappresentare un modello sociale e una strada da continuare a percorrere: la società liberale appunto contrassegnata dalla crescita nella responsabilità personale e l’obbligo di rispondere delle proprie scelte e dove i suoi più feroci oppositori, in libertà, possono affermare di volerla negare.
È il bello della libertà. È la libertà come valore fondativo anche di un umanesimo sociale che mette al centro la persona e anche il suo diritto di un economia globale. La differenza tra una sinistra socialdemocratica e una destra liberale, in un contesto “normale”, starebbe qui e più marcatamente nell’approccio alla globalizzazione dove la prima tende sempre a difendersi da essa e la seconda a sfruttarne le opportunità per garantire crescita al Paese. Ma non siamo un Paese normale. Destra e sinistra sono alla stregua di categorie morali con tutto il pericolo che ne consegue considerato che non c’è totalitarismo che non nasca proprio dalla trasformazione delle categorie politiche in morali.
Cambiamo atteggiamento. La politica non può solo rincorrere le emergenze, appiattirsi sul quotidiano anche se in campo ci sono questioni importanti come il salario minimo definito per legge che non appartiene alla cultura liberale, oppure la questione dell’aumento dei mutui variabili che comunque richiamano alla libera scelta della persona e all’obbligo, appunto di risponderne. La politica deve essere visione, idealità, perché no: fantasia nell’immaginare il futuro. La politica deve fare proprio un altro binomio: bisogno o desiderio.
In questa nuova epoca dove le garanzie sono state ridotte, siamo tutti più precari, il bisogno non è più un valore centrale e la richiesta delle garanzie avrà risposte sempre più blande ma in compenso emergono nuove sfide e nuove prospettive che rendono questa nuova epoca densa di opportunità. Cosa cambia? Tanto per non dire tutto. Le garanzie ci venivano date, le opportunità dobbiamo prendercele.
Ciò che farà davvero la differenza sarà sempre più il desiderio di coglierle e questo libererà energia, intelligenza e intraprendenza.
Un tempo il lavoro si trovava e si perdeva, oggi, semplicemente, si cambia, ma è proprio dalla molteplicità e mutevolezza delle esperienze professionali che deriva una più consistente e potente possibilità di apprendimento continuo. Certo, i momenti di transizione da un lavoro all’altro possono comportare fatiche e rischi, ma sono le opportunità di apprendimento continuo che cambiano il concetto stesso di precarietà e questa può essere osservata con sguardo nuovo. È il tema del desiderio come evoluzione del tema del bisogno e che rappresenta la nuova frontiera della politica, la sua nuova narrazione. Da qui dobbiamo partire se abbiamo l’ambizione di essere gli innovatori del nostro tempo anche se non è così facile perché l’equivoco è dietro l’angolo e talora diciamo desiderio, ma intendiamo bisogno.
Bisogno e desiderio appartengono a piani diversi e presuppongono differenti posizioni esistenziali ma è da qui che la rivoluzione liberale deve partire e come primo atto riscrivere la Costituzione in quanto legge fondamentale in cui si definiscono i cardini della nostra società. Se l’articolo 1: la società fondata sul lavoro, nel 46 aveva il senso di imbrigliare quel partito comunista che era pronto a scatenare una seconda guerra civile per fare dell’Italia l’Ungheria del Mediterraneo, oggi rappresenta un’ovvietà disarmante.
Riscriviamo l’articolo 1 affermando che la nostra società è fondata sulle opportunità, sulla eguaglianza del punto di partenza in cui fare valere il merito di ciascuno. In più, sembra parlare di altro ma non lo è, non più antifascista ma antitotalitarista in cui la prima condizione assume un valore minimale e che fa dell’Italia il Paese che mette al bando ogni forma di dittatura, di fondamentalismo, di oligarchia in estenuante difesa della libertà in quanto condizione essenziale per realizzare i propri desideri.