Nessuno vuole fare il ministro dell’Economia nel costituendo governo di Giorgia Meloni. E non solo perché il momento difficile richiederà scelte impopolari e coraggiose, ma soprattutto perché all’interno della coalizione che sostiene Meloni la visione sulla strategia economica è un drago a tre teste che non promette nulla di buono.
Lo spiega bene Luca Ricolfi oggi su Repubblica. “La divergenza di punti di vista non è una novità: già nei precedenti governi di centro-destra le spinte liberiste e anti-tasse di Berlusconi dovettero fare i conti con le punzecchiature, spesso in chiave statalista o assistenzialista, dei vari Fini-Casini-Follini – ricorda Ricolfi -. E non si può non ricordare che il progetto della Lega di alleggerire e razionalizzare la spesa pubblica (attraverso il federalismo) non ebbe mai il pieno appoggio degli alleati, e forse anche per questo finì per naufragare”.
Ma oggi? “Oggi, sulla politica economica, sono in campo tre destre. La più semplice da descrivere è quella di Berlusconi, che punta su una flat tax al 23%, ma la accompagna con varie promesse di spesa, a partire dall’aumento delle pensioni, e inoltre ripropone per l’ennesima volta la pace fiscale (condono). – spiega ancora il sociologo e politologo -. Poi c’è la destra di Salvini, per certi versi più radicale di quella di Berlusconi: aliquota fiscale al 15%, andata in pensione a quota 41 (un ulteriore aggravio per le casse pubbliche), pace fiscale (un provvedimento che, da anni, Salvini caldeggia più di chiunque altro) ma soprattutto: scostamento di bilancio per aiutare famiglie e imprese a pagare le bollette dell’energia”.
Infine c’è la destra di Giorgia Meloni, che si caratterizza per alcune specificità secondo Ricolfi. “La prima è una notevole freddezza verso la flat tax, vista come misura da implementare molto gradualmente, cominciando con una variante molto meno costosa: tassa piatta sul reddito incrementale, ossia sul reddito in più rispetto a quello dell’anno precedente (la misura ha parecchie criticità, anche tecniche, a suo tempo messe in luce da Tito Boeri e Roberto Perotti) – racconta -. La seconda specificità è la preferenza per alleggerimenti fiscali sul costo del lavoro, specie verso le imprese che aumentano l’occupazione. La terza specificità è l’ostilità verso lo scostamento di bilancio come misura per combattere il caro bollette, ostilità motivata con il timore di aiutare la speculazione”.
Una visione triplice dell’economia che ricalca una visione triplice, e divergente, di cosa si intenda per “destra”. “Nessuna forza politica oggi propugna una drastica riduzione degli sprechi della Pubblica amministrazione, come invece, fino a una decina di anni fa, accadeva su entrambi i versanti, con le politiche di spending review e di efficientamento della spesa pubblica – analizza -. La Lega è passata in vent’anni dall’essere il partito più anti-spesa (in nome del federalismo fiscale) ad essere il più pro-spesa, in nome dei più o meno sacrosanti diritti dei pensionati e della lotta al caro-bollette”.
Che ne sarà dei conti dell’Italia, dunque? Il politologo preannuncia un peggioramento. “La domanda non è se ci sarà un intervento per bollette e costi energetici, ma se questo intervento sarà limitato e sostenibile, come vorrebbe Giorgia Meloni, o ampio e ad alto rischio, come fanno temere i ripetuti interventi di Matteo Salvini – profetizza -. Si potrebbe pensare che tutto dipenda dall’esito del braccio di ferro fra i due leader, ma è verosimile che la partita si giochi più a Bruxelles che a Roma. La vera differenza, infatti, non è quella fra grande e piccolo scostamento, ma fra un intervento di bilancio senza rete di sicurezza, e un intervento concordato (e almeno in parte sostenuto finanziariamente) dall’Unione europea e dalla Bce”
“Si potrebbe pensare che l’inerzia fin qui mostrata dalle autorità europee, che ad autunno inoltrato non sono ancora riuscite a definire una strategia comune sull’energia, non lasci molte speranze al nuovo governo – conclude -. Ma si potrebbe anche osservare che una crisi finanziaria andata fuori controllo per la latitanza di Bruxelles, e la disgregazione dell’Unione europea che ne seguirebbe, sarebbero un grande regalo a Putin”.