Se si potesse stringere in una battuta il post elezioni verrebbe da dire una cosa sola: l’agenda Draghi è stata finalmente ritrovata, l’aveva presa Giorgia Meloni, all’opposizione fino a ieri. Eh già, perché per quanto la leader di FdI si ostini a negarlo, appare ormai evidente ai più che il suo partito non era così pronto a governare, come aveva garantito a quel 26% che le ha dato fiducia. Si potesse tornare indietro probabilmente qualcuno sposterebbe quella crocetta su qualcosa di “meglio”, o no? Mettetevi nei panni di chi ha votato l’estrema destra per provare “qualcosa di diverso” rispetto al banchiere centrale, che il resto del mondo ci invidia, e ora si ritrova qualcuno che ne segue, spaventato, l’ombra. C’è poi un altro pensiero che tormenta l’italiano che invece non ha votato per FdI: non potevamo tenerci l’originale, anziché accontentarci di questa copia ‘sbiadita’ di Mario Draghi? Continuare a godere di quel “tecnico” venuto da Bruxelles, che sin all’inizio del suo mandato si è rivelato più politico di quanto ci si potesse aspettare?
Il punto cruciale della questione è infatti questo: non era Giorgia Meloni quella che un giorno sì e l’altro pure rompeva i timpani, urlando che bisognava farla finita con i tecnici «non votati da nessuno», appellandosi al primato della politica, evocando l’urgenza di tornare alle urne il prima possibile, lasciando la parola ai cittadini? Ricordate il tweet del 20 luglio scorso? «Draghi arriva in Parlamento e di fatto pretende pieni poteri, sostenendo che glielo hanno chiesto gli italiani. Ma in una democrazia la volontà popolare si esprime solo con il voto, non sulle piattaforme grilline o con gli appelli del Pd». Quella stessa Meloni che paragonò la situazione politica italiana di allora alle autocrazie «che rivendicano di rappresentare il popolo senza bisogno di far votare i cittadini, non le democrazie occidentali». E ora che lei ha vinto le elezioni, dunque «è stata votata», lei cosa fa? Pare sempre più intenzionata a mettere su un esecutivo con dieci, forse addirittura dodici tecnici, su un totale di venti dicasteri. Stando ai retroscena di questi giorni Meloni sembra stia cercando un tecnico di livello per l’economia, «uno che faccia quadrare i conti e insieme abbia una visione». Cosa intenda lei di preciso con la parola “visione” non possiamo dirlo, sta di fatto che la premier in pectore non vanta certo un particolare curriculum in economia. Ed è un dettaglio non da poco.
La leader di FdI, ovviamente, ridimensiona, anche per tranquillizzare Salvini e Berlusconi. Ai cronisti ammassati fuori da Montecitorio la futura premier ha detto: «Leggo tante cose, la Meloni è diventata draghiana. Io penso che persone normali che cercano di organizzare una transizione ordinata nel rispetto delle istituzioni facciano una cosa normale, non è che si fa un inciucio». In verità, nessuno pensa ad intrighi di palazzo: la triste vicenda a cui stiamo assistendo da oltre una settimana conferma soltanto il vero tallone di Achille della politica nostrana, vale a dire la mancanza di dirigenti preparati quanto affidabili. Si sta parlando di politica con la “P” maiuscola, quella che cerca di realizzare le cose, ma solo a patto di conoscerle fino in fondo. È la politica del fare, non dell’improvvisazione; è quella di Mario Draghi, del quale già cominciamo a sentir nostalgia. Chi fa politica sul serio (perché ci crede) sa di non dover riversare le proprie responsabilità su altri né imputarle a cause esterne.
Nella «transizione ordinata», come l’ha chiamata la futura premier, pare sia inclusa anche la precisazione con cui fonti del partito chiariscono che al Consiglio europeo del 20 e del 21 ottobre molto probabilmente ci sarà ancora Mario Draghi a rappresentare l’Italia. Qualcuno dirà: c’è poco tempo, non si vogliono creare fratture tra vecchio e nuovo esecutivo. Ci sta, ma converrete che non è proprio un buon inizio per Meloni, che continua a mantenere, nonostante le pressioni degli alleati, la linea di basso profilo scelta dopo il voto (come se bastasse questo per essere Mario Draghi!). “La difesa dell’interesse nazionale italiano, in un contesto internazionale sempre più complesso” è “la stella polare del lavoro e dei contatti della leader di FdI e dei suoi collaboratori”, riferiscono fonti di FdI. L’impressione pare però un’altra: la paura di sbagliare. Giorgia Meloni sa che ha un solo tiro a disposizione e deve fare goal. Gli occhi son tutti puntati e non le sarà perdonato nulla. Stare all’opposizione ad ogni costo era tutt’altra cosa. Governare richiede molto di più: non basta dire “non sono come Orban”, “non sono come Le Pen”, “non sono come Trump”. Per gestire i prossimi mesi occorreranno innanzitutto autorevolezza, credibilità e competenza. Tutte qualità che Mario Draghi aveva. Possono dire lo stesso quelli che verranno?