Dal 34% al rischio del 10%, superato anche dal M5S dell’amico/nemico Giuseppe Conte. A Pontida ieri, dopo tre anni dall’ultima volta e con percentuali di consenso assai diverse, è andato in scena l’ultimo atto della commedia tragicomica del Capitano Matteo Salvini, il canto del cigno di un segretario mandato alla deriva dai suoi stessi uomini (che cavalcano il malcontento della base e non vedono l’ora di sostituirlo), costretto a promettere l’improponibile pur di arginare (anche al Nord) l’emorragia di voti che affligge la Lega.
Salvini sa che non sarà mai lui il premier, ma si autoinveste del ruolo, tra le risate sotto i baffi dei presenti (che sono certi: “Giorgia ci doppia”) e a distanza degli alleati. Specie di Giorgia Meloni, che sembra trattarlo come il matto del paese che va in giro straparlando ma che tutti trattano con benevola compassione. “Io, Giorgia e Silvio siamo d’accordo su quasi tutto e per cinque anni governeremo bene e insieme – annuncia Salvini, che mente sapendo di mentire -. Promesso, niente scherzi né cambi di casacca. E vedrete che all’estero un’Italia con un governo umile, stabile e coerente sarà riscattata”.
Al termine della litania antidraghiana, per tentare di placare i malpancisti Salvini si lancia nella sequela di promesse non mantenibili – e lui lo sa ma fa finta di non saperlo –, provvedimenti, cioè, che produrrebbero ulteriore deficit in uno dei paesi col debito pubblico più alto d’Europa e il cui costo non sarebbe sostenibile neanche in una delle economie più floride del pianeta. Parliamo di quota 41 e della flat tax al 15%, riforme a cui il bilancio dello Stato non sopravvivrebbe ma che Salvini si vende come panacea di tutti i mali, insieme ad azzeramento del canone Rai, abolizione della legge Fornero e porti chiusi. Cavalli di battaglia della poetica leghista.
A ricordargli che a Pontida (e in tutta Italia) le sue panzane il popolo della Lega non se le beve più ci pensa il governatore del Veneto Luca Zaia, che sale sul palco rivendicando quell’autonomia che era ad un passo dal diventare riforma ma che non lo è diventata perché Salvini ha fatto cadere il Governo Draghi con Conte e Berlusconi. “L’autonomia vale anche la messa in discussione di un governo – attacca -. In Veneto da cinquant’anni vogliamo essere ‘paroni’ a casa nostra, io dico che chiunque vada a governare non avrà scelta”. Una specie di ultimatum, che diventa una chiara dichiarazione di guerra nelle parole di alcuni leghisti della base. Come Mario, alpino di Soave. “Il popolo ha votato un referendum sull’autonomia e vuole una risposta – dice senza mezza misure -. Ora basta, il patto va rispettato. Salvini siamo stanchi, non hai fatto niente”. E se il popolo padano dissente, i maggiorenti della Lega mugugnano, in attesa del risultato elettorale che probabilmente segnerà la fine di Salvini segretario. “L’elettorato leghista non vuole più Salvini, il voto è decisivo” dice Roberto Castelli, storico dirigente padano, e anche negli altri il clima è ostile. Tanto che Salvini si affretta a dire che “questo non è un comizio, è una festa”. E neanche gli giova far riferimento al fondatore Umberto Bossi, rimasto a casa. Perché le indiscrezioni sulla replica del Senatur non sono proprio di parole lusinghiere nei confronti del segretario.