Conte salvini

Come la dittatura dei militanti produce cattivissima politica

Luigi Di Gregorio nel suo libro “Demopatia” enucleava molto bene uno dei grandi problemi della politica contemporanea (non il solo, per carità) e cioè l’assenza di veri e propri leader ma di meri e generalmente incapaci followers. Nella sua analisi sul populismo, evidenziava proprio come, a differenza del passato in cui il partito e il leader di partito si assumeva il drammatico (si, era drammatico in certi momenti storici) compito di farsi avanguardia culturale e politica di un’azione che spesso doveva letteralmente prevedere il futuro, oggi quel che conta è assecondare il popolo sulla base di una sorta di delega emozionale. Invece che “to lead” il segretario o presidente di partito deve semplicemente “to follow” il proprio elettorato di riferimento, da tenere sempre in caldo, emotivamente coinvolto ed eccitato affinché una volta alle urne possa fare la sua parte e trasformare la rabbia o la paura in tanti voti sonanti.

Siamo passati dal razionalismo politico all’emotività elettorale: un bello slogan scalda i cuori molto più che una “calcolatrice” per misurare se una certa idea è economicamente sostenibile. È comprensibile, lo sappiamo, ma allo stesso tempo, rimane grave! Con ciò si spiega l’incapacità da parte delle forze politiche di produrre una vision per il Paese (nemmeno per la città, il comune.. che so… il condominio). Lucrare sull’insoddisfazione è il terreno, l’unico ormai, su cui si misura la capacità del leader. Quanto più uno è bravo a inseguire quanto più viene seguito. È il triste paradosso dell’attualità e al tempo stesso una chiave di lettura estremamente rilevante per comprendere che cosa è stata la politica negli ultimi decenni. Non più incarnazione di una visione del mondo ampia e larga da declinare sulla contemporaneità, ma semplicemente una somma di piccole o grandi emergenze – vere o presunte – da trasformare in consenso e voti.

L’anima del populismo sta tutta qua. È una forma di processo alchemico al contrario. Se in alchimia si trasforma il piombo in oro, nel populismo si trasforma la nobile “ars politica” in una guerra permanente di piccolo cabotaggio; in un sindacalismo politico ondivago e oscillante a seconda del vento che tira. Ed ecco che ti ritrovi la Lega che passa da una proposta forte (a tratti anche troppo forte) di secessione territoriale, di federalismo e autonomia, di difesa a oltranza degli interessi del Nord (può anche turbare, ma almeno era una proposta chiara) a un qualcosa di indefinito che trae consenso dalla Bestia agitando odi e insoddisfazioni di tutti, bianchi e neri, poveri e ricchi, settentrionali e meridionali: Perché, tanto certi bisogni – ne parlavamo qualche giorno fa da queste colonne – sono comuni a tutti gli esseri umani, indifferentemente da etnia o residenza geografica. Da partito che immaginava un futuro, a partito che non immagina più nulla ma insegue emozioni negative. Oppure, il Movimento Cinque Stelle che nasce senza nemmeno il bisogno di una strategia di lungo periodo. La sua visionarietà (che non significa avere una vision) era legata indissolubilmente a Gianroberto Casaleggio, morto il quale, è rimasto solo l’odio elevato a sistema politico di una azione che non può che tradursi nell’inseguimento di ogni piccola o grande frustrazione contro la “casta” politica, ma servo di un’altra casta i cui privilegi invece vengono difesi a spada tratta (la magistratura ad esempio), e soprattutto senza accorgersi di essere esso stesso “casta”, come rileva il sempre impeccabile Enzo Raisi.

Oggi tanto l’uno quanto l’altro partito sono in netta crisi di consenso e credibilità perché quel metodo politico non paga. Seguire senza guidare, può far vincere le elezioni, ma non consente di governare seriamente un Paese. Come da tanto tempo ripetiamo, la Politica è altra cosa e oggi che i nodi vengono al pettine, si misura tutta l’inconsistenza delle proposte populiste.
E perciò ha ragione Carlo Calenda quando stigmatizzando Conte e Salvini fa notare che “sono sempre i militanti a chiedere”. Loro, poverelli, come innocenti cavie destinate all’azione da una forma di determinismo politico, non decidono perché non si può andare contro le richieste della base. L’irresponsabilità (nel senso di incapacità di assumersi le proprie responsabilità) elevata a sistema e se nel 2019 era la base a chiedere a Salvini la crisi Papeete, oggi “il Papeete di Conte che arriverà dopo la pausa estiva, sarà compiuto in nome di questi fantomatici militanti”.
Eh si, caro Carlo Calenda, hai proprio ragione! Game, set, match!