di Kishore Bombaci
Ad una prima definizione per quanto parziale e imperfetta, potremmo dire che il sovranismo è quel movimento politico che reagisce alla globalizzazione e internazionalizzazione della politica e della società attraverso il ripiegamento sulla sovranità nazionale di un solo popolo omogeneo e di un solo Stato che debba farsi difensore della comunità nazionale. Solo dalla definizione si respira la cappa chiusa e stantia di un mondo chiuso, fatto di barriere, di una distinzione dicotomica noi/altri, dove gli altri sono tutti quelli che non fanno parte della comunità riconosciuta. E come si riconosce in sè una comunità secondo il pensiero sovranista? Secondo la metafora dello specchio che rimanda la propria immagine. Si è comunità solo in quanto consesso costituita da individui uguali, per razza, colore della pelle e tendenzialmente, per tenore di vita. Una comunità così definita dunque che reagisce all’apertura, con la chiusura in se stessa. In questo contesto, il tema dell’identità diventa la patente per essere ammessi nella comunità o, al contrario, per esserne esclusi inesorabilmente.
Sono anni, per non dire decenni, che la società italiana – come altre, invero – è sempre più lentamente scivolata verso il baratro della chiusura, di un microadattamento ottuso e costante tanto da apparire inevitabile verso questo modo di vedere la vita e la società. Mentre prima, il concetto di democrazia si coniugava inevitabilmente con l’aggettivo universale, cioè estendibile a tutti senza distinzioni, nel tempo, oggi, attraverso la tolleranza a microepisodi di discriminazione e razzismo, ci stiamo abituando al fatto che libertà, tutela e diritti, anche quelli fondamentali, non sono più appannaggio di tutti, ma riservato a pochi e selezionati individui, meglio se bianchi e autoctoni. La libertà è declinata in senso personale (ego-libertà, per usare un termine di Ezio Mauro), che per sua natura esclude il diverso e il nuovo, ben sintetizzata dal motto “padroni a casa nostra”. Padroni sta per sovrani assoluti, liberi dai doveri di comune convivenza e rispetto dei diritti umani, e casa nostra sta per comunità chiusa e omogenea.
Di contro, si esclude tutto ciò che non vi rientra. Paradigma della diversità e della novità è dunque l’immigrato, percepito come un corpo estraneo in un tessuto che altrimenti sarebbe sano perché fondato su una medesima razza e un medesimo sangue. Il colore della pelle ritorna ad essere un segno distintivo, un parametro in forza del quale si è dentro o si è fuori. L’individuo è annullato nella valutazione epidermica. Non c’è spazio per il merito, non c’ spazio per l’opportunità al singolo. Siamo agli antipodi del pensiero liberale, e si marcia, invece, verso un pensiero unico totalitario che ha radici antiche nel tempo, ma oggi torna ad essere attuale.
Attraverso un progressivo sdoganamento del linguaggio, ci concediamo licenze che tempo fa non ci saremmo mai sognati di concederci. Anche se poteva esserci il pensiero razzista, questo rimaneva confinato nell’angusto alveo della mente senza che potesse uscire nel dibattito, pena la pubblica gogna. Oggi, al contrario, attraverso una sapiente applicazione della Finestra di Overton, si ridisegna progressivamente tutto il quadro. L’innominabile pensiero, prima si insinua suscitando lo scandalo, ma piano piano si insinua nell’opinione pubblica fino a diventare degno di legittimazione al pari del pensiero contrario.
Ciò che è tollerante e parla di pace, amore e integrazione, è divenuto un insopportabile e ipocrita “politically correct”, mentre, ciò che esalta l’istinto anche brutale, piano piano si è insediato, divenendo la normalità, ed anzi è vissuto come gesto rivoluzionario. Tanto necessario per ribadire che “a casa nostra comandiamo noi”. Torna quindi il tema della casa e del padrone. Il popolo sovrano è tale solo se condivide lo stesso retroterra storico e culturale oltre che ovviamente gli stessi pigmenti cutanei. Il resto sono “artifici liberali” buonisti (altro termine molto in voga fra I sovranisti) dei quali poter fare benissimo a meno, quando addirittura – sempre secondo la vulgata -non utilizzati contro l’italiano vero e puro. Quindi, di fronte a un mondo che non si comprende più e che si percepisce come minaccioso, si reagisce attraverso l’esclusione del diverso e nel proclama di una presunta superiorità di razza. La comunità diventa il suolo dell’uomo bianco dove il resto è escluso, o a malapena tollerato (quando proprio non se ne può fare a meno). Il suprematismo bianco che in America è divenuto vera piaga sociale e politica, in Italia, per fortuna, non è così marcato anche se giace sottotraccia in tanta parte delle persone ma non ha ancora trovato una forma socialmente accettabile per uscire allo scoperto. Il pensiero sovranista usa a piene mani tale “forma mentis” seppur in modo non esplicito, o meglio non sempre esplicito. Ne costituisce l’humus di coltura dove coesistono forme “presentabili” e forme impresentabili ma facilmente emarginabili senza troppo danno. Si ricorda l’esempio di Luca Traini – autore di un crimine efferato contro persone di colore – già a suo tempo militante sovranista, ma agevolmente scaricato in quanto impresentabile. Ma il sostrato (a)culturale nel quale è maturato il gesto folle del Traini non è estraneo a un certo modo di vedere la società.
La violenza verbale e non, non fanno più scandalo, perché ci siamo assuefatti. E da qui, prosperano coloro per I quali la pelle – bianca nel caso di specie – diventa ostentazione visibile, marchio autoimposto come segno di riconoscimento, antidoto necessario di fronte a una crisi economica e sociale che lascia smarriti e abbandonati e che moltiplica I bisognosi vecchi e nuovi in una sorta di competizione al ribasso. Ma, se gli istituti di welfare vengono elargiti anche agli immigrati non bianchi, qualche bianche ne risulta escluso. E questo, nella logica ormai imperante della privatizzazione dei diritti, non può essere accettato. I sovranisti hanno una prateria di propaganda per poter parlare a sproposito di “razzismo al contrario (sic!). Nella loro ottica, la strumentalizzazione dell’italiano bianco non mira a risolvere un problema reale, ma solo a creare identità e legame attraverso l’individuazione del nemico. Storia vecchia, che tuttavia ritorna uguale e diversa nei secoli. Il mito del sangue e della pelle diventa un’ossessione rassicurante , una protezione prima fisica e poi sociale in un mondo che sentiamo sempre meno nostro e sempre meno sicuro. E allora, come ho detto, se siamo in guerra, occorre un nemico. E chi meglio del nuovo arrivato. Del corpo che dal barcone non chiede nient’altro che sopravvivenza? Il debole per antonomasia ma anche il capro espiatorio perfetto dell’ansia della modernità che nel giro di poco tempo ha scombinato tutti I paradigmi del vivere civile. E’ bene ricordare che quel corpo, in Occidente, ha dei diritti e deve trovare il modo di poterli esercitare in quanto persona umana.
Di fronte a tale percezione distorta da parte dei sovranisti e relativa propaganda, non fa presa la spoglia matematica dei numeri, il fatto che non siamo di fronte a una invasione o pericolo di sostituzione etnica – come certi populisti vogliono farci credere, che non esiste alcun pericolo di essere “colonizzati al contrario”. Tutto questo non ha appeal emotivo di fronte al richiamo all’italica identità. Perché, noi siamo noi, e voi non siete un c…. (per citare la celebre battuta del Marchese del Grillo). Ma nella realtà, non è affatto una battuta. Per la propaganda sovranista e populista “loro” non sono davvero un c…. Non persone non individui, non cittadini Senza diritti e senza rappresentanza. Solo corpi, in esubero rispetto a una società che non può e non vuole accoglierli, con buona pace della nostra cultura giuridica, liberale, umana. E cosa fa la politica di fronte a tutto questo? Niente. Scompare. Lascia il campo, abbandona la sfida per manifesta incapacità. Consegna l’arena dello scontro e del dibattito a forze che strumentalizzano questo modo di pensare che ho cercato brevemente di tratteggiare, e che cavalcano il tema immigrazione a fini elettorali. Poco importa se I blocchi navali sono illegittimi o che non sia possibile chiudere I porti (che infatti non lo sono mai stati). Poco importa che il fenomeno migratorio sia un tema globale da affrontare nei dovuti consessi internazionali. Il cittadino questo non lo vede, non lo sa, e non deve esserne messo a conoscenza. Non fosse mai che si svegli e capisca l’inganno della propaganda. The show must go on, e soprattutto l’illusione del pericolo deve andare avanti. Perché se si è in pericolo ci si aggrappa mani e piedi al Generale – o Capitano – che ti possa salvare con tanto di ruspa. Anche qui, poco importa se a nessuno dei sovranisti frega nulla la risoluzione del problema migratorio. Anzi, al contrario! Se si affrontasse seriamente tale problema si essiccherebbe il terreno della propaganda, e di questi politicanti non rimarrebbe alcunché. Quindi, bene – per loro – che si possa coltivare negli italiani la sensazione del pericolo, e ancor meglio la polarizzazione bianchi-neri, soprattutto in luoghi dove questi e quelli si combattono lo stesso tozzo di pane. Il fallimento della politica sta proprio qui. Non solo non è capace di risolvere problemi immaginando un futuro armonico, ma neanche “nel piccolo” riesce a dar parvenza di sè, incartandosi nella pessima gestione delle città e delle periferie dove vecchie e nuove povertà sono messe l’un contro le altre armate.
Di fronte a questo scenario, innanzi a questo vuoto, cresce l’antipolitica, gli slogan fini a se stessi, l’incapacità di risolvere problemi e d progettare il futuro. La politica, al pari della società, si ripiega su se stessa immaginando un mondo diverso alternativo ma completamente fuori dalla storia. Come se la soluzione dei mali della contemporaneità fosse il ritorno a un ancestrale passato mitico fatto di terra e sangue (e pelle), dove il migrante semplicemente non esisteva né pretendeva di esistere. In una parola, rimuovendo psicoanaliticamente il problema. Ma così facendo, non si accorge (o forse sì?) di abdicare al suo ruolo salvifico e prioritario. Non si accorge che nel retropismo immaginario sovranista, la democrazia si svuota di contenuto, di idee e di spinta propulsiva, diventando anch’essa un corpo su un barcone.