In guerra, come si sa, la propaganda è parte integrante delle “armi convenzionali”, e anche in questa attuale situazione russo-ucraina non manca un vero e proprio conflitto di linguaggi e stili comunicativi. Sia Putin che Zelensky utilizzano ampiamente – seppur in modo radicalmente opposto – la linguistica per dare forza alle proprie posizioni.
Zelensky nei suoi interventi adotta uno stile di comunicazione molto emozionale, volto a suscitare reazioni polari nell’interlocutore che è portato a immedesimarsi con la popolazione ucraina vittima dell’invasione russa. Questo sia che parli in contesti istituzionali sia che si rivolta alla piazza, come accaduto a Firenze il 12 marzo scorso, dove ha toccato il cuore e al mente dei manifestanti con il numero 79, cioè i bambini uccisi dalle bombe russe (fino a quel momento, visto che purtroppo il bilancio è salito). Uno stile accorato, e fortemente empatico. Nei suoi discorsi, utilizza, con maestria, parallelismi con vicende che possano colpire l’immaginario dell’uditorio, accentuando una vera e propria personalizzazione e targettizzazione della comunicazione.
Come, ad esempio, il riferimento all’11 settembre nel discorso ai membri del Congresso statunitense. Ben sapendo che quel richiamo, automaticamente, avrebbe posto sul piano emotivo una corrispondenza “de facto” fra americani e ucraini, ambedue aggrediti in patria da un nemico esterno. Con l’ovvia conseguenza di portare i primi focalizzare la percezione sulla somiglianza delle esperienze e di conseguenza a solidarizzare con i secondi. Ciliegina sulla torta – dal punto di vista comunicativo – il rovesciamento di “I have a dream” in “I have a need”. Il cervello, ci insegna la neurolinguistica, reagisce molto alle informazioni opposte e il passaggio dal sogno al bisogno, ha aperto una voragine emotiva disorientante per i congress-men.
Al Parlamento tedesco il presidente ucraino ha citato l’Olocausto e il muro di Berlino, contando su un tipo di strategia motivazionale e operativa molto radicata nell’inconscio dei tedeschi. Ossia, l’”evitamento” e il senso di colpa. Un po’ come se Zelensky – ma è una interpretazione tutta personale – avesse voluto dir loro “volete essere complici di un nuovo Olocausto? Volete che venga eretto un nuovo muro di Berlino?”. Chiara la risposta attesa. Cioè NO!
Al Parlamento inglese, ha citato Winston Churchill e le drammatiche ore (buie, giustappunto) della seconda guerra mondiale, quando il senso di responsabilità e del dovere fecero sì che il primo ministro inglese divenisse faro di coraggio e di onore contro i nazisti. Il sottinteso evidente è: “cari inglesi, siate all’altezza della vostra storia”. Capolavoro comunicativo e standing ovation!
Ma attenzione. Zelensky non usa linguaggio “manipolativamente” vittimistico. Egli – e il suo popolo – sono realmente vittime di un’aggressione ingiustificata. Sono realmente bersaglio di un mostro che si è materializzato come nei peggiori incubi innanzi al quale è necessario attrezzare tutte le armi, anche quelle comunicative. Se di fronte al pericolo il nostro sistema neurofisiologico reagisce o con il “fight” o con il “fly”, ecco che il presidente ucraino, dover aver dato rappresentazione emotiva del pericolo russo, esorta in una vera e propria “call to action” al fight, cioè a combattere contro le ingiustizie, per ristabilire la giustizia, la verità e l’identità definita dai valori morali.
Da qui, il richiamo all’orgoglio nazionale e alla identità europea, alla difesa della libertà propria e di tutti; un’autorappresentazione cristica del piccolo stato che, aggredito, sfida il gigante. Della piccola comunità che resiste fino al sacrificio. Lo schema è chiaro. C’è un pericolo per tutti (call to indentification), combattiamo (fight), ristabiliamo la nostra vera identità (fulfilled identity). Ecco perché suscita reazioni polari. C’è chi lo ama e chi lo odia e lo ritiene il responsabile dell’aggravarsi della situazione (con argomenti del tutto risibili, ma questa è un’altra storia).
Putin al contrario, non utilizza una comunicazione empatica ed emozionale. Non è sua intenzione ottenere solidarietà e giustificazione del suo comportamento. Egli non cerca approvazione. E’ convinto di essere dalla parte del giusto. Non importa se è vero o meno, importa solo l’autopercezione. Se per Zelensky è importante che tutta la comunità internazionale comprenda l’ingiustizia dell’aggressione, Putin si richiama a un ordine superiore (consacrato peraltro anche dal patriarca Kyrill). Un po’ come se dicesse “sarà la storia (o Dio) a giudicarmi, e a assolvermi”.
Mentre per Zelensky ciò che conta è l’emozione suscitata, per Putin il focus è tutto nel messaggio. Il resto è contorno. Da questo punto di vista, per Putin è più difficile la costruzione di una comunicazione efficace che possa far breccia anche fuori dai confini del suo popolo. Egli deve inventare una controstoria, una narrazione che collide con l’evidenza della realtà. E, quindi, attinge al classico linguaggio della propaganda bellica, ben rappresentata (si fa per dire!) da Joseph Goebbels. Semplificazione della realtà, individuazione del nemico e orchestrazione del messaggio.
Sotto il primo profilo, lo schema è semplice: la Nato, per interposta persona, ci accerchia e questo rappresenta una minaccia alla comunità nazionale (poco importa, anche in questo caso se la storia è vera, purché paia credibile). Nato come sinonimo di Stati Uniti d’America, il Grande Satana, culla di perversione, sin dai tempi del socialismo reale. Quindi IL nemico per antonomasia.
Poi, occorre ampliare la percezione della pericolosità di questo nemico, ma al contempo metterne in evidenza la “bassezza morale”: quindi vengono usati concetti attraenti per il popolo russo. Quello di nazismo/banderismo (con l’implicito risvolto che l’Urss il nazismo vero lo ha sconfitto, da Stalingrado in poi) e quello di tossicodipendenza (che nell’immaginario russo rappresenta il gradino più basso dell’umana condizione).
Una volta semplificata la storia, creato e amplificato il nemico nella sua pericolosità ma degradato dal punto di vista morale, parte la campagna di orchestrazione del messaggio. Poche cose, sempre le stesse, reiterate all’inverosimile. Anche il discorso allo stadio, invero, va nella stessa direzione. Citando le Sacre scritture ci si pone dalla parte giusta della Storia e per converso si esalta la immoralità del nemico accusato di ogni nefandezza, ovviamente eccedendo nei torni e nella sostanza (genocidio in Dombass). Il tutto amplificato dalle immagini e dalla coreografia che ricorda un po’ le dittature novecentesche. La menzogna che si fa realtà ha bisogno di un autore molto audace.
L’audacia rende la storia credibile e consente di bypassare eventuali incongruenze e le dissonanze cognitive. L’audacia genera paura, e la paura genera consenso. Infatti, ogni barlume di dissenso, viene eradicato sin dalla linguistica. Il nemico esterno è stato degradato nei modi sopra indicati. Il nemico interno altrettanto. Tutti coloro che non si allineano alla visione putiniana sono automaticamente traditori della patria (vecchio cliché). Da schiacciare. Anzi, “moscerini da sputare”, come affermato da Peskov. “Moscerini” piccoli insetti fastidiosi. “Sputare” atto che rappresenta l’estremo disgusto.
In Russia questo tipo di comunicazione è molto efficace. Putin sapientemente sfrutta la storia del proprio popolo e le ossessioni che l’hanno caratterizzato indipendentemente dai regimi politici al governo (le accuse di tradimento si sprecano nella storia russa, ne sanno qualcosa i nemici della Rivoluzione da Troczky a Bucharin ecc.). Il terreno emotivo è fertile da questo punto di vista. Mentre la costruzione della storia era la parte più difficile per Putin, la call to action emozionale interna è più agevole. Non vi è quindi bisogno di fare appello emotivo al popolo e la comunicazione quindi diventa “inerte” emotivamente quasi vuota, fredda, reiterata e impersonale.