“Da molto tempo Mosca ha raggiunto un livello di corruzione sicuramente maggiore a quello di qualsiasi altro paese del mondo. L’attuale governo non ha nessuna intenzione di eliminare questo problema, probabilmente perché gli fa comodo che tutto rimanga così com’è. Penso che l’unico modo di risanare la situazione sia quello di sostituire le persone che gestiscono il potere nel nostro Paese e quindi ristabilire l’ordine”. Così, a metà degli anni Novanta, l’ex presidente della Corte Costituzionale Zorkin descriveva la Russia di Boris Eltsin. Qualcosa di molto vicino a uno “stato fallito”.
Zorkin non poteva immaginare che, qualche anno dopo, il ‘nuovo ordine’ sarebbe stato quello della pax mafiosa stabilita da Vladimir Putin. Dai “siloviki” agli oligarchi corrotti, passando per Lyonya, al secolo Leonid Ionovich Usvyatsov, l’allenatore di judo di Putin affiliato alla “Fratellanza”, Craig Unger, il giornalista autore di “House of Trump, House of Putin: The Untold Story of Donald Trump and the Russian Mafia”, ci riporta alle origini mafiose dello Zar. È tra gli anni Novanta e poi nei Duemila che in Russia si assiste alla piena fusione tra potere economico, politico e mafioso, sulle spoglie del regime comunista. In Russia avanza una mafia violenta, armata fino ai denti e soprattutto totalmente interconnessa con le nuove ‘istituzioni democratiche’ del Paese.
L’ex KGB che aveva perso il lavoro a Berlino Est ed era tornato a Mosca mettendosi a fare il tassista, Vladimir Putin, scala rapidissimamente i vertici del potere politico del suo Paese e dà vita al regime criminale che oggi insanguina l’Ucraina. Per anni, anche prima di Trump, che è il vero obiettivo dell’inchiesta di Unger, la mafia russa si è ramificata negli Usa, a Londra e nel resto del mondo. Mentre Putin, il “padrino”, il capo dei capi, diventava l’interlocutore privilegiato di tanti leader politici occidentali. L’ex spia russa ammazzata col polonio, Alexander Litvinenko, usò proprio la espressione “stato mafia” per descrivere il sistema del potere putiniano: una cleptocrazia autocratica e corrotta.
Nel sistema ci sono gli affiliati alle cosche, i capi riciclati delle ex strutture della forza sovietiche (i siloviki) e gli oligarchi arricchiti che hanno distorto “la cura choc” delle ‘liberalizzazioni’ negli anni Novanta compromettendo il passaggio della Russia a una vera economica di mercato. Su The Disinfluencer, Fabio Scacciavillani interpreta in modo originale il libro di inchiesta del giornalista americano Unger, legando l’ascesa di Putin, la legittimazione del Mafia Stato russo, alle “forze oscure” presenti nella società russa, “nella chiesa ortodossa, tra i fanatici del panslavismo rimasti in ombra ma pur sempre influenti durante il regime sovietico”. Scacciavillani descrive questa “cultura diffusa tra le masse ignoranti, il cui unico sollievo ad una vita miserabile si concretizza nell’illusione della Santa Madre Russia, un impero accerchiato e minacciato”.
Si tratta di una “mistificazione plurisecolare diffusa da Pietro il Grande a Alessandro III fino a Stalin e Putin,” che ha portato la Russia degli ultimi 30 anni a ” trascinarsi in una abiezione di dipendenza dallo Stato o da un padrone, dalla culla alla bara”. Lo stato mafia. Altro che libertà economica, politica e morale. L’ordine da ricostruire, come lo chiamava Zorkin, in Russia sembra ancora un miraggio.