A partire dalla loro introduzione e poi dai successivi rinnovi talvolta con modifiche e integrazioni, pareva che i vari bonus per l’assunzione di giovani e donne e le misure di aiuto per il Sud dovessero essere la panacea di tutti i mali del mondo del lavoro e la chiave di volta del riscatto del Meridione d’Italia. Invece, stando ai dati, siamo di fronte a un sostanziale flop che non incide in alcun modo sugli squilibri territoriali, di genere e per età che caratterizzano il nostro mercato del lavoro. Uno studio dell’Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) certifica che nel 2021, solo il 24% dei nuovi contratti è stato generato dagli incentivi pubblici e si tratta di lavoro comunque precario nella maggior parte dei casi. Di questo 24%, per circa la metà sono contratti a termine e per il 25% contratti part-time, con categoria maggiormente svantaggiata, le donne.
Insomma con una valutazione ampiamente diacronica rispetto alle evoluzioni del mercato del lavoro possiamo già concludere che i suddetti bonus si stanno rivelando soltanto spesa pubblica inefficiente e improduttiva. “Spesa cattiva” per dirla con Mario Draghi. Anche l’analisi del dato disaggregato conferma il quadro di riferimento. Lo studio dell’Inapp prende come riferimento quattro tipo di bonus via via rinnovati dai diversi governi e in particolare: decontribuzione Sud, apprendistato, incentivo donne, esonero giovani. Per quantità di contratti generati, solo la decontribuzione per il Sud ha coperto due terzi le nuove assunzioni agevolate; il bonus apprendistato un contratto su cinque; e via a seguire gli altri tipi di incentivo con risultati, invero, molto modesti (giovani 5,8%, donne 4,8%). Dato preoccupante soprattutto per quanto riguarda la poca spinta a favore dei giovani all’entrata nel mondo del lavoro. Saranno pure tutti “choosy”, ma negare la non proprio piena efficacia delle misure adottate sarebbe ipocrita e insensato. Ma il problema non è solo la poca incisività quantitativa bensì la scarsa qualità di questi contratti sotto il profilo della stabilizzazione e quindi delle opportunità realmente generate. In sostanza, come si diceva sopra, solo contratti a termine o part time.
Basti pensare che solo quelli attivati con l’esonero giovani sono contratti a tempo indeterminato (e soltanto perché l’incentivo era collegato a questo tipo di contratto), mentre tutti gli altri scontano una diversa misura di precarietà e fragilità. Fra questi, l’86% degli assunti con bonus apprendistato che quindi gode del relativo contratto, deve interfacciarsi con le criticità di questo in punto di stabilizzazione (da queste colonne ne abbiamo parlato sottolineando come il T.U. abbia inciso ben poco), e il 13% degli assunti con contratto da stagionale che quindi per larga parte dell’anno rischia di rimanere inoccupato.
Per le donne le cose sono parzialmente diverse. Mentre con il bonus Fornero del 2012 la situazione era abbastanza critica sotto il profilo della qualità del contratto (sul 56% delle assunzioni in campo somministrazione il 25% è a termine, l’8% lavoro stagionale e solo l’11% a tempo indeterminato), meglio ha fatto il bonus 2020 che ha fatto registrare una contrattualizzazione quasi paritaria (47% delle assunzioni a termine contro il 45% di lavoro stabile). Per quanto riguarda la decontribuzione Sud, la misura ha portato il 55% di assunzioni a termine, il 18% di lavoro stagionale, il 5% per contratto intermittente, 6% in somministrazione e solo il 16% stabile. Gli altri bonus minori hanno prodotto il 67% di assunzioni a tempo e il 28% stabili. Il dato relativo al part-time, inoltre, ci dice che un terzo dei contratti agevolati dai bonus rispondono a questa fattispecie (per il 20% , mentre per le donne il risultato addirittura peggiora, rappresentando il part-time il 60% delle nuove assunzioni agevolate. Quindi nella maggior parte dei casi, la misura di sostegno ha generato lavoro variamente precario. Non proprio un risultato di cui andare fieri.
Poi c’è il caso di contratti (agevolati) che scontano sia l’essere a tempo determinato e sia l’essere pure part-time. Una specie di armageddon per il lavoratore. In doppia fragilità ritroviamo il 52% dei contratti a termine attivati con lo sconto Sud, con evidente disequilibrio di genere per specifica tipologia (donne per il 79% a part-time, contro il 39% degli uomini) e l’80% dei contratti (a termine con modalità part-time) attivati con l’incentivo donne. Un dato allarmante che riflette un esito paradossale: misure nate per contenere le divaricazioni sociali e di genere, in realtà hanno aumentato la forbice della diseguaglianza, soprattutto a Sud dove la situazione lavoro è sempre più preoccupante. Dal rapporto INAPP solo il dato relativo agli incentivi per la stabilizzazione dei contratti lascia qualche margine di ottimismo. Delle 627 mila trasformazioni effettuate nel 2021 (da contratti a tempo o stagionali o intermittenti a contratti stabili), circa 271 mila sono state trainate da aiuti pubblici. Non male, ma occorre migliorare assolutamente. Insomma, la situazione globale del mercato del lavoro è caratterizzata da difficoltà strutturali che le misure di sostegno analizzate non riescono ad arginare. Gli incentivi erogati dal 2012 ad oggi non hanno quella forza necessaria per riequilibrare le diseguaglianze e si traducono in sostanziale spreco di denaro pubblico.
Per ridare dignità al lavoro, gli incentivi dovrebbero premiare quelle imprese che scommettono sul futuro, su assunzioni progressivamente sempre più stabili e non sulla precarietà. In altre parole, non è aumentando la spesa pubblica che si può generare opportunità lavorative per i ceti più svantaggiati, a meno che tale spesa pubblica non sia “buona” ossia costituisca un investimento che porti nel medio periodo dei ritorni importanti alla nostra economia. Politiche meramente assistenzialistiche per il lavoro, senza contemporanei investimenti e incentivi alle imprese meritevoli e soprattutto senza una radicale rivisitazione del sistema contrattuale, non ha senso e alla fine si rivela del tutto controproducente.