E’ pur vero che se dopo due mesi di guerra Putin non ha ancora chiuso la partita Ucraina è perché non ha interesse a farlo. Certo, è vero che l’eroica resistenza degli ucraini è stata al di sopra di ogni aspettativa. Ed è altrettanto vero che la qualità dell’armamento russo e lo spirito dei militari impegnati sul campo si sono rivelati decisamente al di sotto delle attese. Inoltre, l’attivismo di Zelensky, che lega sempre più saldamente e quotidianamente, i rapporti con l’Occidente, ha reso difficile per Mosca sferrare un attacco letale al bunker dove si nasconde il presidente ucraino.
E’ evidente la disparità delle forze che si fronteggiano, ma quasi tutti gli analisti militari concordano sul fatto che se Putin volesse, potrebbe distruggere non solo il bunker con Zelensky dentro, ma l’intera città di Kiev. Se non lo fa, è ragionevole pensare che nella sua testa ci siano altri obiettivi, prioritari rispetto a quello di annettersi in tutto o in parte l’Ucraina.
Che Putin voglia sfidare l’Occidente, sapendo che né la Nato né tantomeno l’Europa intesa come comunità e come singoli paesi non possono permettersi di fare la guerra, perché le opinioni pubbliche continentali, tra rinunce a qualche ora di elettricità o qualche grado di freddo o caldo dei loro condizionatori, non lo tollererebbero? Tant’è che neppure sul piano delle sanzioni economiche si riesce ad arrivare, per responsabilità della Germania e in seconda battuta dell’Italia, alla decisione di svolta, e cioè quella di rinunciare completamente e subito al gas e petrolio russo.
Per questo a Putin va bene che il conflitto si prolunghi per un tempo indefinito, così logorando più gli alleati occidentali di Zelensky che gli ucraini stessi, e che le operazioni belliche si mantengano ad un regime di intensità controllata, in modo da evitare che Ue e Nato si sentano costretti ad intervenire militarmente, cosa che non conviene a nessuna delle due parti.
Più passa il tempo e più si capisce che per Putin è molto più importante riuscire a spostare verso Ovest il limite tra autocrazie e democrazie. Ciò che vuole è combattere e limitare lo sviluppo della democrazia e delle democrazie, cioè di sistemi politici che mettono in difficoltà il suo potere, la sua figura, la sua visione del mondo. Forse siamo davvero “in un conflitto tra valori russi e valori occidentali moderni e post-moderni”, come dice Aleksandr Dugin, il maître à penser più gettonato al Cremlino.
Potrebbe anche considerarsi un’appendice della guerra ottocentesca di Crimea, visto che tutto è ripartito da lì nel 2014. O come ha fatto osservare Angelo Bolaffi, in fondo a tutto c’è la resa dei conti, più di 30 anni dopo, della fine senza colpo ferire del comunismo. Inteso come ideologia e come sistema politico organizzato. Si versa il sangue che non scorse nel 1989 quando cadde il Muro di Berlino e nel 1991 quando fui dichiarata dissolta l’Unione Sovietica. E sarebbe sciocco pensare che chi ha la presunzione di poter presentare il conto all’Occidente capitalista allora vincitore sotto forma di vendetta e di riscossa, o sotto queste sembianze, di pura affermazione del proprio ego nichilista si accontenti dell’antica Meozia (oggi Donbass) o dell’intera Ucraina.
Ma se questo è lo schema di gioco di Putin, come reagisce l’Occidente? L’affermarsi, in Europa come negli Stati Uniti, di partiti e leader politici populisti e sovranisti con simpatie verso paesi autoritari come Russia e Cina, dovrebbe indurci a temere che la democrazia si stia indebolendo, o addirittura che sia in recessione. Tanto più che, a ben vedere, dittature e autocrazie controllano circa due terzi della popolazione globale. E anche nella Ue ci sono paesi affetti da derive autoritarie (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovenia, Croazia). Per fortuna, abbiamo anticorpi e antidoti, uno di questi è la vittoria di Macron in Francia ma non c’è dubbio che l’Occidente deve capire che per difendere l’ordine liberale bisogna cambiare, sottoporsi a revisione.
Non si tratta di flagellarsi, finendo per dare ragione a Putin quando afferma che l’Occidente è vittima delle sue contraddizioni. Ma neppure fare gli struzzi, fingendo che essere dalla parte giusta della storia sia una volta per tutte e per sempre. Per esempio, le classi dirigenti e ancor più le élite intellettuali e tecnocratiche, sarebbe bene si domandassero perché nella più antica democrazia del mondo è passata la Brexit o perché nel 2018 in Italia e due settimane fa in Francia la maggioranza di chi è andato a votare ha scelto partiti e personalità nazional-populiste mentre l’opzione atlantista ed europeista ha dannatamente perso smalto.
O perché si è rivelato illusorio pensare che la globalizzazione economica, basata sulla libera circolazione delle merci e dei capitali, significasse automaticamente il prevalere delle libertà personali e politiche, la difesa e la diffusione dello stato di diritto. Il fatto che la democrazia resti la forma meno peggiore tra quelle fin qui sperimentate per rappresentare gli interessi individuali e di parte e portarli a sintesi nell’interesse generale, non toglie che essa, come tutte le cose, abbia bisogno di trovare i giusti correttivi. Altrimenti si regala alle autocrazie non solo il vantaggio derivante dalla loro velocità decisionale, ma anche dal fascino che questo decisionismo esercita sulle società che soffrono della fisiologica lentezza che richiede la ricerca del consenso.
Il tempo lungo prima della consapevolezza di quanto sia necessaria una fase “rinascimentale” e “risorgimentale” dell’Occidente, non è assolutamente compatibile con il tempo breve che richiede la risposta alla vera guerra di Putin quella con cui intende riscrivere la storia e ridisegnare la mappa geopolitica del mondo, mettendosi alla testa di una coalizione di Stati che, approfittando della debolezza di Europa e Stati Uniti e della fragilità dei loro rapporti, pur all’interno dell’Alleanza Atlantica intendono dar vita ad un nuovo ordine mondiale, di tipo multipolare in cui le carte le diano i tre “nuovi grandi della Terra”, Russia, Cina e India.
E, allora, che fare? La risposta è: riguadagnare il tempo perduto in questo trentennio nella costruzione degli Stati Uniti d’Europa. Qualcosa di più utile della integrazione comunitaria, o di altri forme di unione, come a suo tempo è stata quella monetaria. Occorre una piena integrazione politico-istituzionale, dei paesi che già fanno parte dell’eurosistema. Finora si è guardato a questo traguardo con romantico idealismo. Ma ora la questione è diversa. Ora si tratta di sopravvivenza. Perché siamo in guerra, anche se il sangue scorre altrove rispetto a Roma, Parigi, Berlino e le altre capitali fondanti dell’Unione europea. E la risposta deve essere all’altezza del momento. Sia convocata una conferenza straordinaria, di rifondazione politica europea. Ogni società nazionale, sia messa davanti alle proprie responsabilità. La risposta che va data a Putin deve essere di pari forza alla sua sanguinaria, ma lucida, ambizione planetaria.