Un’abiura netta, una presa di distanza chiara. A due giorni dal centenario della Marcia su Roma, la neopremier Giorgia Meloni, prima donna proveniente da un’esperienza politica nata dal fascismo a diventare presidente del Consiglio italiano, ha un’occasione unica per fare definitivamente i conti con le proprie, ingombranti, radici e andare oltre la condanna dei crimini dei “totalitarismi del ‘900” inserita nel suo discorso di insediamento. Sarà in grado, Meloni, di rompere definitivamente i ponti con fascismo e neofascismo, o resterà prigioniera della storia?
“Nel centenario della Marcia un capo di governo che viene dal postfascismo dovrebbe esprimere un giudizio definitivo sul regime – sentenzia senza mezzi termini la politologa Sofia Ventura su Repubblica -. In parte l’ha già fatto ieri, nel suo discorso alla Camera, condannando tutti i totalitarismi. Ma resta una condanna superficiale, che non si articola in un’elaborazione critica sul ventennio: questo è il massimo a cui Meloni può spingersi per il suo vissuto esistenziale. Da politica accorta, la neopremier capisce immediatamente cosa serve. E si è già dimostrata disponibile a rapide metamorfosi: fino all’anno scorso paladina della Russia di Putin, oggi atlantista di ferro. Ma sul piano psicologico la conversione all’antifascismo sarebbe per lei una forzatura immane”.
Meloni ha limitato la condanna all’antifascismo agli anni di piombo, quelli che conosce più da vicino, quelli che portarono alla morte di tanti ragazzi innocenti. “Sul martirologio nero degli anni Settanta s’è fondata l’educazione sentimentale della sua generazione – interviene Filippo Rossi, il più radicale degli innovatori nel think tank della destra nuova, giornalista e fondatore della Buona Destra -. Ed è lo stesso sacrario evocato nel discorso di insediamento di La Russa al Senato. Il mondo è andato avanti, ma loro stanno fermi ancora là, a una vicenda di famiglia, all’immaginario di chi per quasi ottant’anni è vissuto ai margini della storia e oggi finalmente diventa il padrone della politica. Seppure negato, il loro fascismo resta un collante psicologico. È una sorta di richiamo tribale che provoca improvvidi automatismi come quello di La Russa che difende il ritratto di Mussolini al Mise. Non si chiamano più camerati ma patrioti. E possono anche denunciare gli orrori dei totalitarismi, ma senza mai dichiararsi antifascisti”.
Per Alessandro Campi, studioso che animò il laboratorio intellettuale della destra dei diritti, la Meloni sbaglia a non prendere in considerazione l’eredità della svolta post fascista di Fiuggi e a rimuovere il simbolo della fiamma. “Giorgia Meloni è stata forse meno coraggiosa di Fini, anche perché più estranea sul piano famigliare alle vicende del Movimento Sociale nel dopoguerra – dice a Repubblica -. Ma sarà la sua nuova veste istituzionale a indurla a dire cose diverse da quelle che ha sempre pensato. Per Fini è stata l’occasione storica a spingerlo a rivedere le sue convinzioni. La Marcia su Roma? Non credo che la neopremier abbia intenzione di ricordare l’anniversario. Nel suo discorso alla Camera ha già detto di non aver mai avuto simpatia per il regime. Ci potrebbero essere dentro il suo partito, questo sì, i saluti romani o le liturgie tipiche del fascismo da osteria. Al minimo accenno, Meloni ha il dovere di intervenire pesantemente sui dirigenti locali inclini a nostalgia. Non si può permettere cedimenti. Se vuole liberarsi dal fantasma del neofascismo, la fiamma è un tema che prima o poi dovrà affrontare. È un simbolo che la inchioda al mondo dei reduci: tenerlo vivo non ha più senso”.
“I comizi si svolgevano tra saluti romani, gagliardetti e canzonette littorie – ricorda lo storico Franco Cardini, ex militante del MSI -. Anche in Fratelli d’Italia c’è ancora chi fa gli occhi dolci a Mussolini e non resiste ad alzare il braccio. Oggi si potrebbe chiedere responsabilmente a Giorgia Meloni: sei il presidente del Consiglio di una Repubblica antifascista? Allora devi sopprimere la fiamma tricolore, simbolo inequivocabile di un partito neofascista. Sarebbe un vero segnale di rottura. Ma è una scelta che deve maturare all’interno del suo partito”.
Ma sarà in grado Giorgia Meloni di gestire quel legame che inevitabilmente ancora unisce l’eredità irrisolta del fascismo con una destra reazionaria e antimoderna? “Per essere una destra radicale non devi essere necessariamente postfascista, ma certo può aiutare – suggerisce in conclusione ancora Sofia Ventura -. La continuità tra le due esperienze si manifesta nell’interpretazione illiberale della storia. Non riconoscere in modo articolato che il fascismo è stato una pagina oscura della vicenda nazionale non solo perché ha prodotto degli orrori ma anche perché ha soffocato la libertà e la democrazia significa stare fuori dalla liberaldemocrazia: non possederne categorie, valori, principi. Una scelta di campo che si riflette in una visione della società chiusa, che non contempla le libertà individuali. Nell’autobiografia ‘Io sono Giorgia’ l’autrice mette in guardia i lettori a proposito della seconda guerra mondiale: non crediate che le democrazie occidentali abbiano combattuto il nazifascismo in nome della libertà e dell’eguaglianza perché erano razziste pure loro. Ma certo che l’Occidente era razzista, però non puoi confondere la segregazione pur terribile dei neri in Alabama con quel che accadde ad Auschwitz. Minimizzare l’afflato di libertà degli angloamericani vuol dire non aver fatto propri i valori liberali dell’antifascismo, quel patrimonio ideale su cui è stata ricostruita l’Europa dopo la tragedia del nazionalsocialismo. Alla Meloni tutto questo manca”.