Non ha fatto piacere scoprire che in tutte le città italiane l’aumento dei prezzi al consumo abbia già pesantemente afflitto le famiglie (a certificarlo è stata l’Unione Nazionale Consumatori sulla base dei dati diffusi quindici giorni fa dall’Istat, sulla incremento del costo della vita).
In testa alla classifica c’è Bolzano, dove l’inflazione di febbraio è pari al 6,8% e si traduce, per una famiglia di quattro persone, nella maggior spesa annua di 3.052 euro. Al secondo posto, Piacenza, dove il rialzo dei prezzi del 7% determina un incremento di spesa pari a 2.617 euro annui. Al terzo gradino del podio Forlì-Cesena, dove il +6,7% genera una spesa supplementare pari a 2.505 euro annui. La città più virtuosa d’Italia, invece, in termini di spesa aggiuntiva più bassa, è Macerata, dove in media si spendono 1036 euro in più (+4,8%). Segue Potenza dove l’inflazione pari a +5,4% determina un esborso addizionale di 1.097 euro, mentre al terzo posto si colloca Campobasso (+5,6%, +1.117 euro).
In testa alla classifica delle regioni con più maggiori rincari, con un’inflazione annua a +6,5%, il Trentino che registra – sempre per una famiglia di quattro persone – un aggravio medio pari a 2.523 euro. Segue la Valle d’Aosta, dove la crescita dei prezzi del 5,9% implica un’impennata del costo della vita pari a 2.478 euro. Al terzo posto la Liguria, +6,4%, con un rincaro annuo di 2.368 euro. Le regioni più convenienti: Sardegna (+6,1%, +1204 euro in media), Campania (+5,8%, +1162 euro) e Puglia (+6,2% e 1179 euro).
Anche considerando il miglior dato, quello di Macerata, nessuna famiglia in Italia ha guadagnato in un anno 1036 euro in più. Gli italiani, insomma, si stanno pesantemente impoverendo e questo avrà effetti nefasti sui consumi e sulla ripresa economica del Paese.
Va subito detto che, dopo un periodo di stasi delle attività economiche (lockdown da pandemia), la ripresa della produzione porta fisiologicamente con sé un’inflazione moderata. La crescita spinge i consumatori e le imprese a incrementare la spesa per l’acquisto di beni e servizi, ed è normale che la domanda tenda a superare l’offerta e che i produttori alzino ragionevolmente i prezzi.
Purtroppo, a questa inflazione da domanda si è sommata anche un’inflazione da costi: l’aumento dei prezzi delle materie prime, insieme all’aumento dei prezzi del petrolio e del gas, ha spinto al rialzo i prezzi di tutti i beni prodotti e trasportati. Questo effetto tenaglia dell’inflazione – da domanda e da costi – ha colpito indistintamente tutto il Paese.
Però, in talune aree l’esito è stato eccessivo, superando nettamente la somma dei due tipi di inflazione citati. Un tasso elevato è quasi sempre indicativo di una patologia del sistema e quindi l’aumento dei prezzi dei beni al consumo delle famiglie è ingiustificato.
Un’inflazione da crescita di due punti (massimo) e un’inflazione da costi di tre punti (massimo) può spiegare bene il tasso medio nazionale (5%). Nelle città in cui l’inflazione ha oltrepassato tale soglia, gli ulteriori punti percentuali hanno fatto impennare i prezzi e appaiono oggettivamente di troppo: hanno tutta l’aria di un oligopolio all’opera ovvero di una speculazione tacitamente condivisa.
Se sull’inflazione da domanda c’è nulla da fare e su quella da costi è necessario l’intervento del governo centrale (che ha già iniziato con un primo taglio delle accise sui carburanti), per il sovrappiù emerso a livello locale chi deve (o doveva) intervenire? Siamo difronte a un fenomeno tutto interno all’economia di quel territorio, da subire così come si subiscono gli eventi meteorologici o geologici? Oppure i cittadini hanno il diritto/dovere di reagire a tali eccessi?
Il sistema politico locale, che dei cittadini è espressione, può – con le sue azioni e le sue omissioni – incidere su questa dinamica. Tanto incoraggiando, quanto impedendo affarismi. Purtroppo, nelle città afflitte da tassi più elevati, si è dapprima favorito un clima di speculazione (culpa in educando) e si è successivamente omesso di frenare ogni abuso (culpa in vigilando).
Quando sindaci, giunte e maggioranze consiliari hanno scelto di strizzare l’occhio ai pubblici esercenti che protestavano contro il governo (per le misure restrittive anti-pandemia), in quello stesso istante abdicavano alla propria funzione di amministratori e di politici, e si trasformavano in sindacalisti, in tutor. Quando, in un periodo delicato come l’attuale, le amministrazioni comunali hanno omesso di monitorare con la necessaria con perizia i report mensili sui prezzi al consumo e hanno evitato di avviare le conseguenti azioni di confronto e di moral suasion presso le varie categorie economiche, hanno abdicato alla funzione di tutela dell’interesse generale e si sono auto-commissariate.
Col senno di poi, appare evidente che a dispiegarsi sia stata una condotta politica tutt’altro che lungimirante, dettata dal prepotente desiderio di ampliare la rete del consenso, ma di fatto miope, incapace di prevedere le controindicazioni, gli effetti collaterali che il “piccolo cabotaggio” produce a danno della collettività. Si chiama inesperienza? Si chiama incompetenza? Si chiama negligenza politica? O cinismo? Occorrerebbe un manuale, non un articolo per approfondirne la matrice. L’unica certezza è che a pagare il prezzo – è proprio il caso di dirlo – sono stati i cittadini.