Un vero scontro sanguinoso con lividi, ferite e anche qualche metaforico morto sul campo, quello che si è svolto nella quasi totale assenza di comunicazione tra i vertici – Tajani, Ronzulli, Bernini e Barelli prima per tre giorni in Sardegna da Berlusconi – poi riuniti segretamente in una stanza d’hotel a Roma per evitare assalti dei pretendenti al seggio – e i tantissimi parlamentari che premevano per ottenere una ricandidatura sicura. In Forza Italia, insomma è un tutti contro tutti.
Molti, ancora ieri pomeriggio, non erano ancora certi della propria sorte, speravano in un cambiamento dell’ultimo minuto, che quasi mai è arrivato. Perché le scelte principali sono state tutte compiute con una logica, assicura Antonio Tajani, come riporta il Corriere. “Meritocrazia, capacità di lavoro, impegno, pagamento del contributo di partito e numero di legislature alle spalle”. Con una aggiunta: “E’ sempre doloroso non poter accontentare tutti, ma stavolta è stato ancora più difficile, non solo per noi ma per tutti i partiti”.
E gli scontenti sono tanti in FI, chi pronto a sbattere la porta, chi di fatto già uscito, chi accetta a denti stretti quello che considera uno sgarbo, come la presidente del Senato Casellati che si aspettava di correre nel suo collegio in Veneto che – raccontano – era stato concesso agli azzurri da FdI, nonostante spettasse al partito, proprio «per rispetto a lei», e che ha lasciato molto sorpresi in via della Scrofa quando è stato invece occupato dalla Bernini.
D’altra parte la pattuglia di quasi sicuri rieletti si è ridotta dai 123 uscenti a 50/70 delle previsioni più o meno ottimistiche, e tra richieste del territorio, fedelissimi del Cavaliere, fedelissimi dei fedelissimi, tanti sono rimasti fuori. Per dirla con un big di un partito alleato, in FI «sono state fatte cose forti… Ed è stata quasi azzerata la pattuglia degli esponenti più vicini a Gianni Letta, area ministeriale e no».
Certamente alcune esclusioni fanno rumore. E’ il caso di parlamentari storici come Simone Baldelli, l’«imitatore» più famoso della politica, che ha rifiutato una candidatura ritenuta impossibile, esattamente come hanno fatto Giuseppe Moles (spodestato dalla Casellati nella sua Basilicata, ha detto no a una candidatura come capolista che non permette di ottenere un seggio), Renata Polverini e Andrea Ruggeri, nipote di Bruno Vespa. Per loro, è praticamente un addio se è vero che Tajani ha detto chiaro a tutti: «Chi ci mette la faccia, anche se non riuscirà a essere rieletto, sarà tenuto nella massima considerazione per incarichi presenti in futuro. Gli altri no». Apprezzata, riporta il Corriere, la disponibilità di Elvira Savino, che correrà come capolista in Friuli in una mission pressoché impossibile ma ha promesso massimo impegno. Molto meno sono piaciute alcune proteste: alla fine ad Annagrazia Calabria è stato concesso solo un collegio in Senato a Roma ritenuto molto difficile, a Sestino Giacomoni il terzo posto in lista nel Lazio nel proporzionale dopo Barelli e Maria Spena, che correrà anche a Roma centro: anche qui, molto ardua la rielezione, molta delusione per lui che lo ha appreso a cose fatte.
Se Deborah Bergamini è riuscita ad ottenere la candidatura come capolista in Toscana Nord, considerata sicura, peggio è andata per Gregorio Fontana, altro storico azzurro, capolista in una circoscrizione veneta ma a battersi con il collega Flavio Tosi. Nessun uninominale nemmeno per Valentino Valentini, il suo consigliere e interprete storico: capolista in Emilia sì, ma non blindato.