Oggi, dopo questa “sbornia” elettoralistica, tutti sono pronti a gridare e con essa a gioire per la rinascita del bipolarismo, quello atavico, che esiste da sempre, tra destra e sinistra. Il termine populismo e con esso il termine sovranismo sembrano essere banditi dal linguaggio della politica, come se tutto fosse legato alle sorti politiche del M5S e della Lega salviniana, oggi fortemente ridimensionati entrambi.
Quindi, nel rinato bipolarismo destra-sinistra, le forze centriste che si ponevano come possibile alternativa alla deriva populista escono non solo sconfitte ma frantumate, e non rimane loro altro che decidere da che parte stare con un ruolo marginale in entrambi i campi. È questa la vera fotografia del nostro sistema politico? Il nostro sistema di informazione, ormai schiavo dell’audience, ha rinunciato alla sua funzione non solo di raccontare la realtà ma anche, e soprattutto, di fornire al cittadino gli strumenti di riflessione sulla vita del Paese oltre il quotidiano.
I giornalisti sono diventati giornalai e, in questa veste, la parola d’ordine è semplificare perché l’audience si determina sulla mobilitazione delle tifoserie più che sulla consapevolezza dei cittadini. Proviamo dunque a rispondere alla domanda. FdI e Pd, sommati assieme, rappresentano il 26% del corpo elettorale. Alla faccia del bipolarismo. A questo bipolarismo farlocco si contrappone quello vero, determinato da chi vota e chi no, in cui l’astensione è sempre più denuncia dell’appiattimento dominante dove destra e sinistra si assomigliano ogni giorno di più nella loro natura anti-impresa, statalista, assistenzialista, giustizialista e, sia pure in forme diverse, integralista.
Le tipiche frasi: “non cambia nulla”, “sono tutti uguali”, sono tremendamente corrispondenti alla realtà, altro che retorica qualunquista. In questo contesto di omologazione, su cosa si costruisce la differenziazione? Su Almirante e Berlinguer? No! Figure politiche complesse, simboli di storie complesse, rispetto a cui si poteva dissentire o meno, ma che avevano un tratto in comune: la serietà e il rispetto reciproco. Emblematico fu il gesto di Almirante di omaggiare la salma di Berlinguer.
Oggi, a incarnare il bipolarismo farlocco, sono Vannacci e la Salis e, come diceva una vecchissima pubblicità, basta la parola e non c’è bisogno di aggiungere altro. Contestualmente, il bipolarismo farlocco non può essere scisso da populismo e sovranismo, facce di una stessa medaglia in cui questi ultimi affondano le proprie radici in quel compromesso cattocomunista su cui è stata costruita la nostra repubblica e che ha determinato la trasformazione del nostro paese da capitalistico liberale a criptosocialista.
Dal farlocco al reale abbiamo una società spaccata a metà, in cui c’è la parte che vive dei sussidi, delle rendite di posizione, dei diritti acquisiti che ormai sono diventati privilegi, di assistenzialismo, di difesa dell’esistente, che presumibilmente vota a garanzia di sé stessa, a cui si contrappone l’altra parte che produce, che vuole la concorrenza, che vuole l’affermazione del merito, della competenza per stare nei mercati globali, che vuole parlare di produttività aziendale e non di salario minimo, di crescita e non di stagnazione, di uguaglianza delle opportunità e non di egualitarismo, che riconosce doveri e responsabilità, che vuole la centralità dell’individuo e non lo Stato vessatorio e burocratico, che presumibilmente non vota perché ad oggi non ha nessun riferimento politico, che è silente ma su cui grava un duplice peso: rendere e mantenere competitivo il Paese nel contesto globale e garantire il sostentamento all’altra parte, la parte parassita.
Ecco il vero bipolarismo: società chiusa contro società aperta, Liberalismo contro Illiberalismo. È questo lo scontro di civiltà in atto in cui i valori fondativi di libertà, democrazia, stato di diritto sono attaccati dall’esterno dai totalitarismi della Russia putiniana, dalla Cina, dalla Corea del Nord, e soprattutto dal fondamentalismo islamico guidato oggi dall’Iran con le sue diramazioni, una su tutte Hamas, ma ancora più pericolosamente dall’interno attraverso il puntinismo, il pacifintismo, e principalmente l’antisemitismo e l’antisionismo intrecciato alla retorica antifascista e anticapitalista. Le ragioni di costruire in Italia una forza politica liberale, che sia rappresentante e interprete della società aperta, di quel 50% e oltre che, disgustato, non vota, che si ponga l’obiettivo non più procrastinabile di realizzare la fondamentale rivoluzione liberale per il futuro del paese, stanno tutte qui, dentro lo scontro di civiltà che l’Occidente non si può permettere di perdere, su cui non può arretrare di un solo millimetro, pena il suo sfaldamento.
Rispetto a questo, tutta la discussione interna su Italia Viva, Azione, Renzi, Calenda, Terzo Polo, liste più o meno di scopo è semplicemente banale. In questa banalità si racchiude tutta la drammaticità della pochezza dell’esistente, che rende non più procrastinabile avviare la fase costituente del partito nuovo liberaldemocratico. In gioco c’è la difesa della libertà e ogni liberale non si può rassegnare al dualismo populista.
Non si può rassegnare all’idea di un’Italia all’interno della quale non possano attecchire le radici del liberalismo. Non si può rassegnare all’idea di vedere le nuove generazioni assenti volutamente dall’esercizio del diritto di voto. Non si può rassegnare a credere normale che 500 mila italiani votino per un generale razzista e sessista e che altri 150 mila portino nel Parlamento Europeo una pregiudicata accusata di andare in giro a pestare chi non la pensa come lei. Non si può rassegnare a tutto questo. Per cui è obbligo non mollare e rimboccarsi le maniche per realizzare la rivoluzione liberale.