Se vogliamo comprendere a pieno che cosa è diventata la giustizia in Italia, dobbiamo partire proprio da qui. Cioè dal fatto che, ormai, il punitivismo è dilagante e si è impadronito della democrazia italian.
Ne scrive oggi, in un lunghissimo articolo su Il Dubbio, Alessandro Barbano, partendo dagli interventi di due maestri del diritto, quali: Giorgio Spangher e Giovanni Fiandaca.
La tesi dei due giuristi è che il processo ha subito una “torsione finalistica”, spostando il suo target dall’accertamento del reato al contrasto del fenomeno criminale, alterandone la sua natura liberale, e offrendosi come braccio armato a una politica mossa da pulsioni securitarie. In nome dell’efficientismo, dell’economicità e della compressione temporale, il risultato del processo ha fatto strame del principio di tipicità legale delle incriminazioni, fagocitando le categorie sostanziali dentro una processualizzazione in cui sfuma fino a svanire il rapporto tra l’eccertamento penale e la verità ontologica dei fatti. E specchio di questa distorsione l’eclissi dei reati che offendono beni afferrabili a vantaggio di fattispecie centrate su una fenomenologia sociale, giudicata moralmente riprovevole, a prescidere dalla sua offensività giuridica.
La seconda conseguenza di questa torsione finalistica – scrive Barbano – è la centralità dell’indagine come strumento esplorativo e pervasivo di tutela sociale, connesso a tre funzioni che la giustizia ha ricevuto in delega dalla politica, e che Giovanni Fiandaca riassume nel “controllo di legalità” a tutto campo sull’attività dei pubblici poteri nella difesa della democrazia dalle minacce della criminalità e nel rinnovamento e nella moralizzazione della classe dirigente e della società.
All’analisi ineccepibile dei due prestigiosi maestri qui sintetizzata, Barbano aggiunge una considerazione. “Un rito accusatorio incompiuto – scrive – insediato in un sistema ordinamentale che rinunci alla separazione delle carriere non può che approdare a una verità processuale che coincida con una verità sfigurata. Nessun giudizio che cerchi la prova nella dialettica tra le parti può prescindere da una terzietà radicale de giudicante.
Che non riguardi solo la sua funzione nel processo, e neanche l’inquadramento nell’ordinamento, ma il rapporto direi sacrale del giudice con la protezione dell’innocente, la sua inattaccabile indifferenza alle domande di giustizia dell’opinione pubblica, la responsabilità di sostenere il senso del limite che il sistema accusatorio porta con sé, e tra questo l’idea che un colpevole possa anche farla franca perché le indagini sono state condotte male”.
Ma non è solo il processo propriamente detto la sede di corruzione della giustizia quanto le sue duplicazioni speciali, che si sono riprodotte dentro e fuori i confini del penale, portando a
spasso il punitivismo nella democrazia italiana. E tra queste – osserva Barbano – la legislazione antimafia, storica amnesia del dibattito pubblico. È qui che, alle tre deleghe della politica alla magistratura, indicate da Fiandaca se ne aggiunge una quarta ancora più decisiva: e cioè la funzione di riscatto sociale e di perseguimento dei quell’uguaglianza sostanziale che la Costituzione prescrive alla democrazia nel secondo comma dell’articolo 3. E che la giustizia di prevenzione s’incarica di realizzare, mettendo al centro del suo radar non più i colpevoli, ma i beneficiari di ricchezze ingiuste, che si tratti di mafiosi o di corrotti, o più semplicemente di terzi in qualche modo coinvolti con i primi a prescindere da una loro responsabilità penale, e perfino di lo Stato o verso la comunità, e neanche verso le vittime dei reati commessi, spesso neanche provati o ipotizzati, ma prima di tutto verso la storia.
Il fatto che le confische non siano considerate sanzioni, ma provvedimenti penali sui generis, con un artificio incomprensibile a qualsiasi artificio di buonsenso, non ci esime dall’analizzare l’enorme afflittività che scaricano sulla democrazia.