Marina Ovsyannikova non è sparita. La producer che ieri aveva interrotto il tg sul primo canale russo imbracciando il cartello “no war”, mettendo in guardia i telespettatori dalle bugie del regime di Putin sulla guerra in Ucraina, è riapparsa. In una foto diffusa su Telegram, è accanto al suo avvocato presumibilmente in tribunale a Mosca.
La BBC fa sapere che la donna è accusata di “organizzazione di un evento pubblico non autorizzato”, rischia una multa fino a 30.000 rubli e 10 giorni di carcere. Secondo fonti citate dall’inglese Guardian, la pena potrebbe essere molto più drastica, fino a 15 anni.
Già pensare che si possa sbattere in carcere una donna che protesta contro la guerra, tanto più che suo marito è ucraino, dimostra qual è lo stato della libera informazione in Russia. Del resto ricordiamo tutti l’assassinio della Politkovskaya. Se mai la riflessione da fare è un’altra.
Il regime russo non è più quello sovietico pre internet e social media. La donna che ieri ha interrotto il tg è diventata una notizia virale, per il coraggio mostrato da Marina e la sua volontà di dire la verità sulla invasione della Ucraina. Questo dimostra che i Paesi occidentali, la nostra stampa ma anche la community globale sui social, può tenere costantemente in pressing il regime russo.
Accendere i riflettori su storie come quella di Marina vuol dire salvare la vita a chi si oppone al regime. Non dimentichiamo che fino ad ora ci sono stati circa 14mila arresti nelle manifestazioni della opposizione russa. La pressione mediatica sul regime russo dunque può tutelare i dissidenti, alimentare le proteste interne e dare voce alla opposizione a Putin che in Russia esiste e sta crescendo.