Mettersi d’accordo è un’arte, soprattutto tra coloro che hanno buone intenzioni. Ma in questo periodo di contrasti profondi, una domanda è ricorrente: come facciamo a metterci d’accordo? Sul cambiamento climatico, sulla povertà e la sofferenza globale, sulla guerra in Ucraina, sull’emigrazione internazionale, sulle nuove regole per la società digitale, contro i fondamentalismi, e su tutte quelle altre mille cose importanti che servono per salvare capra e cavoli, cioè noi stessi e il pianeta su cui abitiamo.
La risposta è meno difficile quando le parti condividono un interesse preponderante ed è a partire da questa considerazione, che il filosofo Luciano Floridi traccia alcune considerazioni in un articolo pubblicato oggi dall’HuffPost, partendo da un esempio semplicistico: se Lucia preferisce la cucina indiana a quella italiana, e quella italiana a quella cinese, mentre Renzo preferisce quella cinese a quella italiana, e quella italiana a quelle indiana, qualsiasi discussione tra loro dovrà partire dalla transitività delle loro preferenze: Lucia preferisce la cucina indiana a quella cinese, mentre Renzo preferisce quella cinese a quella indiana. Forse il compromesso è la cucina italiana. Ecco: una volta che queste questioni formali sono rispettate, ci sono poi i contenuti.
Paradossalmente i cattivi – scrive Floridi – si mettono d’accordo più facilmente dei buoni, almeno inizialmente, perché condividono l’interesse per un fine comune – svaligiare la banca – e quando serve sopprimono il dissenso con la violenza. Invece i buoni hanno spesso interessi divergenti, e sono litigiosi, perché proteggono anzi invitano il dibattito. La Banda Bassotti si mette d’accordo molto più facilmente di Qui Quo Qua, che invece hanno bisogno di tutto l’aiuto possibile, incluso quello celeste. E questo ci porta alla risposta più difficile. Come facciamo a metterci d’accordo quando abbiamo interessi diversi, o addirittura contrastanti, e il disaccordo è parte integrante e benvenuta del processo di negoziazione di una risoluzione condivisibile?”.
Anzitutto, ci sono delle condizioni formali, che si possono riassumere in termini di legittimità, metodo, e logica della scelta. La legittimità riguarda le parti e gli interessi coinvolti. Per esempio, altre nazioni possono auspicare e dire quello che vogliono, “ma l’Ucraina e la Russia – spiega Floridi – sono le uniche parti che hanno la legittimità di mettersi d’accordo su una futura pace. Riconoscerlo è un piccolo ma necessario passo verso la risoluzione del conflitto. C’è poi la legittimità degli interessi. Il concetto di ‘resistenza’ è anche legato al non riconoscimento, e quindi alla non negoziabilità, della presunta legittimità degli interessi che informano e guidano l’azione della controparte, si pensi a tutti i contesti in cui un conflitto resta irrisolto. La guerra in Ucraina non ha raggiunto un accordo stabile neppure su questo aspetto formale, per questo si teme che purtroppo durerà ancora a lungo”.
Anche perché una volta che queste questioni formali sono rispettate, ci sono poi i contenuti.
Si pensi al dibattito sui principi etici per l’uso dell’Intelligenza Artificiale: ce ne sono centinaia, tutti un po’ equivalenti, e chiunque ne può codificare di nuovi. Il problema è che firmare anche importanti dichiarazioni universali sui principi fondamentali che dovrebbe guidare lo sviluppo e l’uso dell’AI serve a poco se poi manca la componente applicativa. Un po’ come dire che tutti firmano bellissime dichiarazioni sulla pace nel mondo, ma poi non succede niente per la sua realizzazione.
Altre volte sono proprio i principi ad essere di ostacolo e partire da loro vuol dire determinare a priori il fallimento della negoziazione. “In questo caso – aggiunge lo studioso – un atteggiamento più pragmatico suggerisce l’identificazione delle procedure, delle prassi, delle azioni, insomma del da farsi che, a prescindere dai principi che possono guidarne la giustificazione, trovano un ragionevole consenso. Dalla Palestina all’Irlanda del Nord, da Brexit a Taiwan, a volte è meglio partire dal fattibile sul quale un accordo è raggiungibile, piuttosto che dai principi fondamentali, rispetto ai quali il disaccordo appare insuperabile. In etica, si può collegare questa idea al contrattualismo. In giurisprudenza, si può tracciare una simile connessione con il proceduralismo. Adattando e semplificando molto in entrambi i casi, l’idea di fondo è che il mettersi d’accordo sul da farsi gioca un ruolo primario rispetto ai principi dai quali si parte per raggiungere l’accordo. Lucia e Renzo possono accordarsi per andare a mangiare una pizza anche se lei è vegetariana e lui no”.
Ma la cosa più importante da sottolineare resta su che cosa ci dovremmo metter d’accordo oggi, in questo periodo di cambiamenti così profondi e veloci? È dai tempi di John Locke che pensiamo che ci si debba preoccupare anzitutto della pace, e che per raggiungerla serva la tolleranza. John Stuart Mill, molto più tardi, ha aggiunto che se si ha la tolleranza si porta a casa anche la libertà, una specie di offerta speciale, paghi uno compri due. Ma è Kant, tra i due, ad avere fatto l’offerta sulla quale abbiamo costruito le democrazie liberali moderne: con la giustizia paghi uno e compri tre, tolleranza, pace e libertà. O così è sembrato fino a tempi recenti.
“Personalmente – scrive Floridi – non sono convito e credo che si debba riprendere l’idea che sia la tolleranza il vero nocciolo della questione. Ma lasciando questo dibattito ad un’altra occasione, quello su cui vogliamo certamente trovare un accordo è un mondo pacifico, tollerante, libero e giusto. Ma per trovare un accordo su come costruire questo mondo serve una democrazia all’altezza delle sfide contemporanee. Così, alla fine, la cosa più importante sulla quale dovremmo metterci d’accordo, in modo da poter trovare poi accordi anche su tutte le altre cose, è come vogliamo ridisegnare la democrazia nel ventunesimo secolo, in modo che sia lo strumento giusto per risolvere le questioni che ci stanno a cuore e sono così pressanti. Come anticipavo, a me sembra che si debba riprendere l’idea della centralità della tolleranza, e non della giustizia. Ma questo significherebbe partire dai principi e non dalle prassi, un vizio da filosofo. Consapevole di ciò, è meglio che concluda dicendo che, mentre dibattiamo su quali principi debbano orientare il fondamento della democrazia del futuro, sarà bene partire dal basso, e mettersi d’accordo sul fattibile il prima possibile, usando l’approccio che guida lo sviluppo di ogni civiltà da tempi immemorabile: incentivi e disincentivi”. Ovvero: la carota e il bastone.