La crisi russo-ucraina va avanti dallo scorso 24 febbraio attraverso quella sorta di “spettacolarizzazione” attuata dai canali di informazione e consistente nel continuo afflusso di notizie, immagini, report, video, interviste, collegamenti più o meno studiati e quant’altro.
Spettacolarizzazione del dolore, della tragedia, della devastazione che si tramuta in fastosa liturgia laica del “far vedere ad ogni costo”, senza nulla risparmiare, in nome della (presunta) informazione.
Le orde russe seminano morte e distruzione in aperto spregio delle più elementari regole di diritto internazionale [mai sentito parlare, zar Putin, della Convenzione di Ginevra?] e del diritto di natura [mai sentito parlare, zar Putin, di quel complesso di norme interne a ognuno (quasi) di noi che impedisce di esercitare violenze crudeli e barbare sugli inermi?] e tutto ci arriva dritto addosso, con la forza dirompente di un colpo di maglio.
Gli effetti non possono che essere scontati: l’apparente condizione di anomia, di cui teorizza Durkheim, che determina lo sradicamento del soggetto causa la perdita delle norme di riferimento collettivo. Poi, per reazione, rabbia.
Eppure – perché un eppure c’è sempre (pur nella banalità intrinseca di tale constatazione) – nella mente speculativa e meno tubo catodico dipendente sorge dell’altro, una domanda: “Ci si può limitare ad una condanna di stile (direi manierista) o si deve agire?”. L’evoluzione naturale è “Si può e/o si deve presentare il conto al tiranno?”. È interessante presentare alcuni responsi offerti dalla Storia, quella Storia che, ci veniva insegnato da bambini, è per gli uomini magistra vitae ma che, da adulto, mi viene amaramente da considerare dovrà prendere atto del fallimento, visto che si trova in presenza di una classe di zucconi ripetenti nella cui scatola cranica nulla resta. A parte i selfie, si intende!
Non potevamo di certo iniziare senza una menzione dell’assassinio compiuto da Bruto e Cassio (tra i più noti congiurati) di Giulio Cesare. Nel corso del 16° sec. i c.d. monarcomachi, giuristi ugonotti, nel clima della guerra di religione culminata nella notte di s. Bartolomeo (1572), asserirono la superiorità della sovranità popolare e teorizzarono il diritto dei sudditi a deporre e uccidere un sovrano che opprimesse la loro vita religiosa. Alcuni anni dopo, la riflessione sulla legittimità del regicidio emerse anche nel pensiero politico di T. Hobbes, sullo sfondo della prima rivoluzione inglese che portò all’uccisione di Carlo I Stuart (1649).
Con grande balzo pindarico arriviamo alla I Guerra mondiale, scoppiata per l’omicidio del duca Ferdinando, simbolo del potere asburgico oppressore. Più tardi, nella Germania nazista, molteplici furono i tentativi di sbarazzarsi, mediante attentato, del dittatore coi baffetti (in questi giorni è un proliferare di articoli che inneggiano ad un nuovo Stauffenberg – mi domando come e dove – per risolvere dall’interno la crisi in atto. Per inciso, il citato colonnello fallì; quando si dice parlare tanto per…). Terminato qui l’excursus, peraltro eseguito rigorosamente a volo d’uccello e che ben si guarda dall’avere intendimenti didattico-didascalici, la conclusione non può che essere una: col tiranno la ragione, con tutte le sue ragioni, è debole, indifesa, impotente.
Al tiranno si deve disobbedire; lo si deve combattere con tutti i mezzi necessari. Un ricordo degli studi liceali riaffiora, a chiusura: Alceo (VII sec. a.C.), esiliato da Mirsilo, inneggiò alla morte del tiranno in un noto frammento: “Ora bisogna ubriacarsi e bere a forza, giacché è morto Mirsilo”. Stia pur certo, zar Putin, lo faremo. Ad maiora.