È ufficiale, la Hagia Sophia (Santa Sofia) diventa moschea. Un ritorno che non passa inosservato a chi cerca di capire i mutamenti dello scenario internazionale iniziati con l’elezione di Erdogan. Un passaggio che simboleggia la volontà di riportare la Turchia al suo passato teocratico, in un mondo che oggi di tutto aveva bisogno tranne che di un nuovo Impero Ottomano. Facciamo un po’ di chiarezza. Hagia Sophia nasce, nel 537 e fino al 1453, come cattedrale Greco-cattolica e poi ortodossa e infine, a eccezione di un breve periodo tra il 1204 e il 1261 quando fu cattedrale cattolica di rito romano sotto l’impero latino di Costantinopoli, sede del patriarcato di Costantinopoli.
Divenne poi moschea ottomana nel 1453 e tale rimase, per meno di 500 anni, fino al 1931 quando fu sconsacrata e infine, nel 1935, trasformata in museo e simbolo del dialogo multiculturale e religioso da Kemal Atatürk, massone, fondatore e primo presidente della moderna Republica Turca. Più cristiana che islamica, se proprio vogliamo, da allora, Hagia Sophia è diventata il simbolo di una Turchia moderna e proiettata verso il progresso, sebbene straziata al suo interno dalle mille contraddizioni di un paese che, letteralmente, è ponte tra due mondi, due civiltà, due epoche diverse.
Un paese, la Turchia, da sempre a cavallo tra l’Occidente di cui è alleata e l’Oriente di cui è amica. Membro della Nato, ma vicino alla Russia di Putin, con uno zampino sempre più ingombrante negli affari medio orientali e nelle relazioni con il gigante cinese. Ma a nessuno, a partire dal Vaticano, sembra importare realmente nulla. Il Pontefice romano si dice addolorato, tutto qui, e per ora la Santa Sede si limita a riportare i moniti del Patriarca ecumenico e del Patriarca ortodosso di Mosca e di tutte le Russie che definiscono l’atto «parte di un progetto imperiale. Il volto spirituale di una conquista [politica, nda] che per gli islamici è sempre molto concreta».