La domanda è “siamo o no in un’economia di guerra?”. Perché se già fossimo in quella condizione, o anche solo prossimi, ciò comporterebbe precise conseguenze e responsabilità. Naturalmente l’Italia non è stata attaccata, e non ha dichiarato guerra alla Russia.
È ormai evidente che l’obiettivo di Putin non è la conquista di Kiev, ma ricostruire i vecchi confini dell’Unione Sovietica e con ciò arrivare a ridisegnare la mappa geopolitica del mondo, ridefinendone gli equilibri e le regole di convivenza. Gli riesca o meno, questo significa che la dimensione del momento che stiamo vivendo non è racchiudibile nello schema “aiutiamo l’Ucraina”. Che con tutta l’umana comprensione e vicinanza che lo straordinario popolo ucraino merita, richiede però lo sforzo di capire che c’è in gioco molto di più.
E non s’intende solo a valori come democrazia e libertà, che pure sono messi in discussione sì dalle armi ma anche dalle farneticanti teorie del guru di Putin, il politologo e filosofo Aleksandr Gelevič Dugin, ideologo della grande rinascita di Mosca, secondo il quale a Kiev “si combatte la guerra dei valori russi contro i valori occidentali moderni e post-moderni”, come per esempio la “guerra spirituale contro i gay” già evocata dal patriarca Kirill, capo della Chiesa ortodossa russa.
E neppure c’è in gioco l’unità dell’Europa, che peraltro ne sta uscendo maggiormente cementata; in ballo c’è anche il nostro modello di vita. E questo in tutti casi, compreso quello auspicabile in cui il disegno dell’autocrate russo fallisca. Perché comunque ci sarebbe da gestirne le conseguenze, a cominciar dal default economico, militare e politico di Mosca, che non sarebbe affare di poco conto visto che si preconizza una Grande Depressione come quella dell’America degli anni Trenta.
Perché comunque anche la fine dell’invasione e della guerra non riporterebbe le lancette dell’orologio della storia a prima del 24 febbraio. Tutto ciò, per dire che se la cornice giuridica dentro la quale il governo ha scelto di collocare il Paese fin da fine febbraio “Stato di emergenza in relazione all’esigenza di assicurare soccorso ed assistenza alla popolazione ucraina sul territorio nazionale in conseguenza della grave crisi internazionale in atto”, è per ora sufficiente, ma diverso è il clima di consapevolezza, fin qui del tutto inadeguato, in cui siamo immersi.
Finora l’invasione scatenata da Putin è stato materiale da mass media, vuoi toccando le corde dell’emozione, vuoi per improbabili dissertazioni di più o meno pensabili esperti militari che giocano alla guerra riempiendo la cartina geografica dell’Ucraina di figurine belliche per ipotizzare questo o quell’attacco, questa o quella mossa di difesa. Mentre il fronte delle conseguenze è stato animato dalle notizie sul rincaro della benzina e delle bollette di gas e luce, e delle relative proteste.
Ciò che è mancato, è la narrazione al Paese, autorevole, responsabile, capace di innalzare il tasso di consapevolezza degli italiani, di cosa è successo e di cosa potrebbe accadere, di quali conseguenze si siano già manifestate e di quali è previdente attendersi che possano insorgere. Perché qua e là spuntano parole come “economia di guerra”, “razionamento”, “emergenza”. Troppo poco per far comprendere, tanto per spaventare. Si potrebbe dire che così faremmo del terrorismo psicologico, scatenando il panico. No, è il dire e non dire che fa scattare l’allarmismo. Si tratta solo di rendere consapevoli gli italiani.
Quando l’abbiamo fatto per il Covid, il risultato è stato eccezionale, nonostante i media abbiano fatto di tutto per mettere al centro dell’attenzione la minoranza dei non vaccinati anziché indagare la realtà di chi si è fidato della scienza e civilmente si è messo in fila per farsi proteggere dal virus. Si tratta di rifarlo, usando con sapienza parole e gesti simbolici.
Ma oggi quale credibilità hanno i politici? Medio scarsa, se per puri scopi elettorali c’è chi va in Polonia a rendersi ridicolo. Ma a guidare il governo c’è l’italiano più autorevole, al Quirinale c’è il presidente più stimato. Il Parlamento un punto di credito l’ha guadagnato, quando l’altro giorno è stata approvato alla quasi unanimità l’aumento delle spese militari fino al 2% del Pil, che passeranno dai 25 miliardi l’anno odierni ad almeno 38 miliardi. Un provvedimento dal forte significato politico e simbolico, oltre che pratico, considerato che finora era prevalso il senso mediatico pacifista.
Certo in Francia Macron ha detto “Dobbiamo essere pronti”, evocando il “ritorno del tragico nella storia” e ponendo al centro del suo programma elettorale (manca poco alle presidenziali) un nuovo modello di “indipendenza strategica” per la Francia e l’Unione europea. Forte del fatto che il suo sia il paese meno dipendente da petrolio, gas e carbone, e che aggiungendo le rinnovabili avrà un mix energetico che gli assicurerà la totale indipendenza. E’ sulla traccia del solco francese che sarebbe auspicabile che Roma seguisse più o meno le stesse linee.
Certo, noi partiamo da molto più indietro: dobbiamo diversificare gli approvvigionamenti energetici degli idrocarburi e non sarà facile perché ci mancano i rigassificatori e c’è da riattivare il prelievo del gas nei nostri mari, ma nello stesso tempo dobbiamo accelerare, eliminando ogni lungaggine burocratica, l’installazione degli impianti rinnovabili come l’eolico offshore. Ma se fino a un mese fa questa trasformazione energetica era una necessità, adesso è diventata una emergenza, cui dare antecedenza assoluta. Ed in questo la Puglia, essendo una regione con spiccate caratteristiche per le fonti rinnovabili, può e deve contribuire immediatamente, mostrando piena autorevolezza amministrativa, auspicando una spiccata inversione di tendenza, di fronte ai nuovi scenari internazionali.
Per questo andrebbe subito riscritto il PNRR, riformulando le priorità, e ai quattrini derivanti dal Next generation Ue andrebbero sommate tutte le risorse nazionali e comunitarie che abbiamo a disposizione, per dar vita ad un nuovo grande “piano Marshall” che affronti tutti i ritardi strutturali e strategici che abbiamo colpevolmente accumulato negli ultimi trent’anni.
Dobbiamo essere consapevoli che se non siamo in recessione, certo è fortemente rallentato il recupero della ricchezza perduta con la pandemia nel 2020. Un grosso peso è derivato dal mix tra il rincaro spropositato dell’energia e l’aumento dei prezzi delle materie prime e la loro scarsità, e sta mettendo in ginocchio imprese e intere filiere industriali, provocando una crisi dal lato dell’offerta che rischia di saldarsi con il permanere di una contrazione della domanda, che si era creata con la pandemia ma che preesisteva come onda lunga della recessione e della stagnazione post crisi mondiale del 2008 e crisi europea del 2011.
In un quadro di questo genere, se da un lato è comprensibile che si intervenga con provvedimenti tampone, dall’altro insistere con la politica dei sussidi e dei bonus, tanto più se poi si rinuncia alle grandi scelte di investimento e alle riforme strutturali, appare del tutto incongruo e sbagliato.