Il fallimento del referendum è una ferita ancora molto fresca e già, come prevedibile, iniziano le analisi più o meno fondate dell’esito disastroso, fra scambi di accuse, giaculatorie, o, al contrario, grida entusiastiche di chi non si accorge di “suonare sul Titanic che affonda”.
In tutto questo vociare di bassa propaganda, spicca una delle voci più credibili e autorevoli: l’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, il quale, in una intervista di stamattina, pone l’accento su due questioni fondamentali.
Da un lato la scarsa informazione dei media sulla consultazione, dall’altro la estemporanea e improvvisata organizzazione dell’iniziativa referendaria. Sicuramente esiste ed è forte la responsabilità di un servizio pubblico che non ha sostanzialmente svolto al meglio il proprio dovere e ha fatto sì che l’elettorato andasse all’appuntamento elettorale privo di quel minimo di conoscenza necessaria per l’esercizio di un voto consapevole. Questo è un elemento che ha pesato e che è stato sottolineato più volte anche dagli stessi membri del comitato promotore, fino ad arrivare allo sciopero della fame di Roberto Calderoli, che Caiazza bolla, senza troppi sofismi, come una caricatura di altre storie politiche che non le meritano (il riferimento è evidentemente a Marco Pannella e alle sue storiche iniziative non-violente).
Però – ed è il secondo punto dell’analisi dell’insigne giurista – anche il comitato promotore non è esente da responsabilità a causa di una organizzazione estemporanea e improvvisata che molto ha inciso nel determinare il flop. Ciò a partire dalla mancata interlocuzione con i tecnici di settore e, in particolar modo con le Camere Penali che hanno sempre partecipato alla fase preparatoria dei referendum pannelliani sulla giustizia, fino alla discutibile formulazione dei quesiti, la bocciatura di alcuni dei quali – quelli a maggior appeal elettorale, su cannabis ed eutanaisa – è elemento obiettivamente dirimente.
Questa volta al contrario il comitato promotore era ristretto a due partiti, di cui uno – la Lega – ha immediatamente abbandonato la partita, addirittura non depositando le firme. Si è invertita, insomma, una positiva tendenza all’allargamento del tavolo degli organizzatori a più mondi diversi ma collegati utili a consentire a molteplici sensibilità di farsi promotrici di cultura, informazione e divulgazione. Caiazza espressamente dichiara: “non puoi limitarti a dire che non c’è attenzione sui quesiti. L’attenzione politica si crea”. E, in questo caso, non è stata creata affatto. Compito della politica doveva essere, infatti, l’intermediazione rispetto alla complessità di alcuni temi specifici al fine di renderli fruibili al corpo elettorale. In questo caso, tale aspetto è mancato completamente.
Come negare poi – si domanda Caiazza – la poca credibilità di alcuni sponsor, che da anni fanno battaglie tutt’altro che garantiste? Non si può “predicare per anni di buttare via la chiave” e poi promuovere un referendum sulla custodia cautelare. Ne va della coerenza intrinseca della battaglia stessa. Ma – ed è il punto forse più preoccupante dell’analisi del Presidente dell’UCPI – il problema reale che dovrebbe interrogare tutti, non è tanto il “come è andata ieri” e le responsabilità del disastro, quanto piuttosto le conseguenze di questo sui temi specifici oggetto di referendum e, più in generale sulla Giustizia, anche in previsione dell’approvazione della Riforma Cartabia, definita più volte anche dall’avvocatura come – per usare un eufemismo – non risolutiva.
Perché se è vero che da oggi i cosiddetti giustizialisti sono obiettivamente più forti e la magistratura militante può senz’altro pareggiare il conto simbolico con il flop dello sciopero delle toghe dello scorso 16 maggio, è pur vero che alcuni tempi referendari rimangono fondamentali e il dibattito pubblico su questi meriterebbe altra sorte. Dalla separazione delle carriere, che per Caiazza è tema di interesse pubblico anche per i non addetti ai lavori, alla custodia cautelare su cui la Riforma Cartabia niente dice.
Insomma, nella pletora di errori, dalla disinformazione alla superficialità, nello scambio di accuse più o meno propagandistico, la vera vittima di questo flop è proprio il diritto ad avere una giustizia equa ed esercitata nell’interesse della collettività.