Aveva sognato di sconfiggere la mafia applicando la legge. Ed è stato ucciso per questo, diventando da morto l’emblema di una cultura della legalità che gli hanno impedito di rappresentare da vivo. A trent’anni dalla strage di Capaci, in cui persero la vita per mano di Cosa Nostra il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli ricorda il magistrato e amico nel libro dal titolo emblematico “Vita e persecuzioni di Giovanni Falcone” (La nave di Teseo), e in un’intervista a Il Giornale dai toni molto duri, in cui l’ex guardasigilli non risparmia critiche a Dc, Pci-Pds, toghe di sinistra e di destra, cita espressamente la “trattativa”, fa riferimento ai possibili mandanti esterni e al ruolo della ‘Ndrangheta che Falcone “pensava fosse affiliata a Cosa Nostra”.
“Giovanni Falcone era il più importante, il più capace, il più famoso tra i giudici che hanno combattuto la mafia – scrive Martelli nel suo libro -. Per questo nello stesso giorno in cui fui nominato ministro della Giustizia lo chiamai e gli affidai l’incarico più importante del ministero, quello di direttore degli Affari Penali. Insieme, abbiamo pensato e organizzato la più organica, determinata ed efficace strategia di contrasto a Cosa Nostra. La mafia reagì uccidendo prima Falcone poi Borsellino con una violenza terroristica più efferata e rabbiosa di quella armata in precedenza contro i molti giudici, poliziotti, uomini politici che l’avevano contrastata. Pur tra tante affinità, la storia di Falcone è diversa da quella degli altri uomini dello Stato che hanno combattuto la mafia perché solo a Falcone è capitato di essere perseguitato in vita non solo da Cosa Nostra, ma anche di essere avversato da colleghi magistrati, dalle loro istituzioni come il CSM e dall’Associazione Nazionale Magistrati, nonché da politici e da giornalisti di varie fazioni. Ancora oggi di quest’altra faccia della luna poco si sa perché poco è stato detto. Fece eccezione l’amico più caro di Falcone, Paolo Borsellino: ‘La magistratura che forse ha più responsabilità di tutti cominciò a far morire Giovanni Falcone ben prima che la mafia lo assassinasse a Capaci’”.
“Contro Giovanni Falcone c’è stata un’azione parallela di Cosa Nostra e della magistratura, la mafia aveva occhi e orecchie al Palazzo di Giustizia di Palermo – attacca senza paura Martelli su Il Giornale -. Parlando con il giornalista Francesco La Licata una volta il giudice gli disse, a proposito dell’attentato fallito all’Addaura: ‘C’è stata la saldatura’”. 41 bis, premi ai pentiti, programmi di protezione: Martelli, guardasigilli del governo Andreotti, insieme a falcone in quegli anni dette un impulso forte alla lotta alla mafia. “Ero vicepresidente e ministro della Giustizia, Enzo Scotti era ministro dell’Interno, poi lui venne estromesso dal Viminale e andò agli Esteri, lasciando il posto a Nicola Mancino. Il presidente del Consiglio incaricato Giuliano Amato mi disse ‘Craxi non ti vuole alla Giustizia, vai alla Difesa’. Io gli rispondo: ‘Hanno ucciso Falcone, con lui ho cominciato una battaglia, o la continuo o me ne vado’. Amato mi richiama e mi dice ‘Craxi ha detto che i tuoi sono buoni argomenti’”. Ma sul fronte antimafia, massacrato Falcone ed estromesso Scotti mi ritrovai solo. Mancino mi chiese tempo per difendere il decreto Falcone su 41 bis, una misura preventiva, non punitiva per impedire che i boss mafiosi spadroneggiassero in carcere. Tanti partiti erano contrari, non c’era voglia di fare la guerra alla mafia. Dc e Pds definirono il decreto incostituzionale. Ma dopo la strage di via d’Amelio non trovarono più argomenti. Io ottenni l’approvazione, ma se non ricordo male il Pds si astenne…”.
Martelli si tormenta da oltre trent’anni, interrogandosi sul perché la magistratura considerasse Falcone un nemico. “Solite beghe? Invidie? Gelosie? Dicevano che era affetto da smanie di protagonismo eppure aveva appena vinto il processo contro Cosa Nostra, Antonino Caponnetto lo considerava il suo erede naturale, aveva ricevuto encomi da Bush, dal ministero della Giustizia Usa e dall’Fbi che poi gli dedicò una statua – ricorda -. Una volta un giudice canadese lo invitò a presiedere un processo, dicendo se in un’aula giudiziaria c’è Falcone, il suo posto è alla presidenza. Era il giudice antimafia più famoso al mondo. Meli fu scelto proprio per distruggere l’opera di Falcone. Con lui degradato, il pool sciolto e il maxi processo contestato, il Pci-Pds si mise di traverso contro di lui ben prima che venisse a lavorare per me. Gerardo Chiaromonte, allora presidente della commissione Antimafia, ricorda che dopo il fallito attentato all’Addaura esponenti della Dc e del Pci vicini al sindaco Leoluca Orlando lo deridevano dicendo che se l’era organizzato da solo. I magistrati coraggiosi venivano trucidati, il resto della magistratura siciliana non aveva alcuna voglia di muovere guerra alla mafia. Paura, connivenza, quieto vivere? Eppure i cedimenti sul 41 bis non hanno evitato le stragi del 1993: gli attentati a Maurizio Costanzo, via Palestro a Milano, via dei Georgofili a Firenze, i due attentati di Roma e l’ultimo, quello fallito allo stadio Olimpico. La trattativa di governo c’è stata ma non è reato, piuttosto un colossale errore politico che ha prodotto nuove stragi. Anche i vertici del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno con il loro colloquiare con Vito Ciancimino, come dichiarò lo stesso Mori a Firenze, volevano fermare le stragi. Ma anche questo non è reato. La Corte d’Appello ha giustamente annullato le condanne”.
“A Capaci fu il giorno più brutto della mia vita, Falcone era il miglior magistrato che avessimo ed era mio amico – conclude -. Il mio stato d’animo? Un dolore e un’ira indicibili, il mio dovere quello di reagire per trasformarlo nel giorno più brutto della mafia. Fu Sergio Restelli, capo della mia segreteria, con me sul luogo dell’attentato, ad avere l’intuizione di prendere i mozziconi di sigaretta, come un cane da fiuto. Abbiamo chiamato i poliziotti che ci accompagnavano, li hanno raccolti e li abbiamo dati all’Fbi che era già sul posto, perché loro sapevano fare le indagini sul Dna. Hanno individuato loro gli assassini”.