Come ormai noto, il 12 giugno i cittadini italiani saranno chiamati a esprimersi su cinque quesiti referendari per cambiare l’attuale stato della giustizia. Buona Destra appoggia con convinzione e decisione il SI a tutti e cinque tali quesiti. Riportare la giustizia in un ambito liberale, costituzionale e pienamente democratico è, infatti, una sfida identitaria dalla quale non è lecito sottrarsi con comode astensioni motivate da insulsi paralogismi.
Se si tiene conto di cosa è stato negli ultimi 30 anni il sistema giudiziario in Italia nel suo difficile rapporto con la politica, ben si può comprendere come scappare nell’ideologia per non affrontare il problema è scelta incomprensibile e sbagliata e tale rimarrebbe anche se i referendum dovessero fallire.
A partire quantomeno da Tangentopoli (in verità anche prima) la magistratura ha occupato uno spazio che non le era proprio, cancellando un’intera classe dirigente. E quel che è venuto dopo, dal centrodestra al centrosinistra, non ha avuto la forza di riprendersi quello spazio mascherando con ruggenti proclami timide azioni di rimessa, spesso mediante interventi a spot che mai hanno inciso sul funzionamento del sistema-giustizia, né tantomeno hanno eroso privilegi di casta che, al contrario si sono sempre più consolidati e cristallizzati fino a sfociare nello scandalo Palamara. Quest’ultimo ha portato alla luce con evidenza che chi si era erto a giudice non solo penale ma anche morale dell’intera società e aveva preteso di interpretare la palingenesi morale richiesta dal popolo italiano, non aveva poi tutta quella legittimazione che ostentava con protervia in ogni occasione.
Il tema è tutto qui. Quando si parla di politicizzazione di una parte della magistratura non si deve intendere la preferenza politica per questo o quello schieramento, ma la pretesa di esercitare la funzione della “polis” che è insieme legislativa e culturale. E’ il farsi Stato etico al grido di “onestà, onestà” che contraddice i principi di uno Stato di diritto liberale, alieno questo dal processo di iperpenalizzazione che ha interessato il nostro paese negli ultimi decenni con una proliferazione abnorme di reati, alcuni molto fumosi ed evanescenti, e che ha consegnato nelle mani della magistratura le chiavi per lo sviluppo e la crescita economica italiana (un esempio per tutti, il codice degli appalti e i conseguenti reati amministrativi). Accanto a ciò e come naturale conseguenza di questa pretesa moralistica, si è inteso trasformare il diritto penale da strumento di repressione dei reati a clava da abbattere contro questo o quello a seconda della convenienza.
D’altro canto, imputare tutto ciò alla sola magistratura sarebbe scorretto e non costituirebbe l’intera verità. Se è vero che questa invasione di campo c’è stata, è pur vero che è stata possibile solo perché la politica ha fatto un passo indietro tutte le volte in cui invece doveva avanzare sul terreno del recupero del suo primato. Il settore Giustizia è divenuto un tabù irreformabile, pena la compromissione di quei privilegi di casta tenacemente difesi a suon di azioni penali (obbligatorie in diritto, discrezionali in fatto). Il grido di battaglia “resistere, resistere, resistere”, restituisce l’idea di una guerra civile che non ha risparmiato nessuno, nemmeno la povera Ministra Cartabia la cui riforma ha ha determinato addirittura uno sciopero generale della magistratura (rivelatosi poi un flop assoluto).
Questo il background culturale di quel percorso che oggi conduce ai referendum del 12 Giugno.
In questa guerra autoreferenziale fra politica e magistratura, la vera vittima di tutto ciò, cioè il cittadino, lancia un grido di allarme che non può essere sottovalutato ma che impone anche una piena assunzione di responsabilità.
Un’ indagine Eurispes ci offre l’immagine sconfortante della completa sfiducia che l’elettorato ha nei confronti della Giustizia. Due italiani su Tre si dichiarano sfiduciati nei confronti del nostro apparato giudiziario. Per il 19,8% vi è la chiara percezione che non tutti sono uguali di fronte alla legge, per quasi il 12% il problema è direttamente alla magistratura, il 23% lamenta l’eccessiva lunghezza del processo (immaginiamo prevalentemente civile), l’11,6% ravvisa nell’inadeguatezza delle leggi la fonte principale del disastro-giustizia. Addirittura, si arriva all’imbarazzante dato per cui il 27,3 % di chi ritiene di aver subito un reato, nemmeno lo denuncia.
Ma, come si diceva prima, lamentarsi non basta. Mettere in luce delle evidenze di disfunzione del sistema non assolve il cittadino da far qualcosa per porvi rimedio quando ha la possibilità di farlo. Questo è il senso profondo dell’occasione storica che si presenta il 12 Giugno. Non la lesa maestà del Parlamento che pure sulla base dell’esito referendario deciderà cosa fare in Senato della Riforma Cartabia, ma esercizio diretto della sovranità popolare, nel cui nome si esercita tanto la funzione legislativa quanto quella giudiziaria, in un momento – invero assai lungo – in cui queste due funzioni sono in una sclerotica guerra fra loro.
E allora ben venga il referendum che dia una indicazione chiara alla politica su come riappropriarsi del terreno che le è proprio e per questo Buona Destra auspica che ciò avvenga mediante un deciso e convinto SI ai quesiti. Il tutto senza alcuna mira vendicativa o punitiva nei confronti dei giudici (come sostengono i magistrati più militanti e ideologizzati), ma, al contrario con l’unica ed esclusiva finalità di restituire quel prestigio e quell’autorevolezza al potere giudiziario evidentemente andate perdute (il 57% degli Italiani ritiene che l’azione dei giudici sia condizionata dal loro sentire politico), che è la pietra angolare su cui si costruisce una giustizia che funziona davvero.
E, una forza di destra liberale non può sfuggire dalla sfida del cambiamento invitando all’ astensione, proprio perché crediamo fermamente nel valorizzare il merito e non il privilegio, nel dare forza al singolo e non alla corporazione e ci battiamo contro il populismo giudiziario che demagogicamente intende risolvere i problemi strutturali di questo Paese solo con il codice penale. L’identità stessa di una forza liberale sta nella lotta senza quartiere contro ogni abuso di potere corporativo a danno dei singoli individui e una giustizia che violi questo principio non è giustizia.