A vedere certi “talk-show” e la tv in generale, la memoria storica in Italia sembra già persa. La consapevolezza degli italiani sulla propria storia sembra sempre più debole e offuscata. Si è affermata, invece, una pervasiva ignoranza sulla propria storia e quella degli altri.
Oggi molti, moltissimi, italiani attaccano a turno la Nato, oppure singolarmente la Francia, la Germania, gli Usa, il Regno Unito, etc.
Ben conosciamo l’atavica presunzione e spacconeria di certi ambienti italiani. È costata molti lutti e molti dolori ai nostri nonni. Ma adesso si è arrivati a dimenticare tutto. Ma proprio tutto. L’Anpi, ad esempio, ha dimenticato completamente la propria memoria di lotta per liberarsi dall’invasore. Ha dimenticato persino le parole della propria canzone-simbolo “Bella Ciao”.
Un’azione diplomatica italiana va invece ricostruita partendo dalla memoria storica e dalla consapevolezza dei propri difetti e le proprie virtù. Soprattutto in questi tempi di grandi tribolazioni. Va cioè ritrovata la propria collocazione ricordando ciò che abbiamo dimenticato riguardo alla nostra storia e ai punti fondamentali della storia della nostra diplomazia.
Una memoria storica che va rinfrescata: l’Unità d’Italia
Molti italiani dimenticano infatti che l’esistenza stessa dell’Italia contemporanea, l’Unità d’Italia, fu raggiunta grazie alla politica estera francese di allora e all’esercito francese. Se Napoleone III non avesse portato 150 mila uomini sulla pianura padana insieme all’esercito sabaudo, l’Unità d’Italia non ci sarebbe stata. Oppuresarebbe avvenuta una o due generazioni più tardi. Morirono circa 20 mila francesi nella seconda guerra d’indipendenza italiana, 17mila dei quali in una sola, feroce, battaglia a Solferino nell’estate del 1859.
Dopo sette anni, nel 1866, l’Italia acquisì il Veneto e il Friuli fino all’Isonzo grazie alle armate prussiane che sconfissero gli austriaci a Sadowa il 3 luglio del 1866. Mentre il neonato esercito italiano si limitava a tenere impegnato il contingente austriaco a Custoza, perdendo per giunta la battaglia sul campo. E perdendo anche sul mare, a Lissa.
Dopo Venezia, anche Roma fu conquistata grazie ai tedeschi del XIX secolo. Solo con la vittoria prussiana di Sedan e il conseguente abbandono di Roma da parte della guarnigione francese, l’Italia ebbe la possibilità di entrare a Roma, con la simbolica presa di Porta Pia nel 1870.
A conti fatti, l’unica campagna vittoriosa interamente italiana fu l’impresa garibaldina. Cioè in una guerra tra stati preunitari italiani. Per giunta, solo con il beneplacito di potenze dell’epoca, come l’Impero Britannico e la Francia.
Si potrebbero contare alcune imprese coloniali dove l’Italia ha vinto da sola? Forse, ma costarono molto, moltissimo. Compresa quella di Libia del 1911-13 che fu comunque con vari alleati indiretti: la stessa disgregazione dell’impero ottomano e soprattutto i popoli balcanici che con le guerre balcaniche del 1912-1913 lo sconfissero sanguinosamente.
Memoria storica da conoscere e riconoscere: dalla prima alla seconda guerra mondiale
Anche Trento e Trieste furono conquistate grazie (o a causa) di un intervento italiano a fianco di eserciti ben più potenti e determinanti: l’esercito francese della Marna e di Verdun, quello britannico della Somme, quello russo (zarista) di Brusilov e poi quello americano una volta travolto l’anacronistico impero russo dalle rivoluzioni.
Nonostante centinaia di migliaia di morti, per lo più contadini meridionali mandati al macello da uno stato maggiore incompetente, l’esercito italiano ebbe limitata efficacia. L’episodio più importante fu addirittura un’epocale sconfitta: la rotta di Caporetto dovuta per lo più agli allora celebrati capi militari, in realtà pessimi, come Cadorna e Badoglio.
Ci fu Vittorio Veneto, certo. Ma guarda caso una vittoria contro un impero austro-ungarico già crollato ed ottenuta da uno dei pochi generali italiani che misero da parte la presunzione per dedicarsi alla pragmatica ri-organizzazione e alla motivazione del proprio esercito per salvare l’unità: Armando Diaz.
La storia si ripete, amaramente, nella seconda guerra mondiale. E in maniera tanto emblematica quanto tragica: una vera e propria summa del comportamento italiano nel corso di lunghi secoli. Sono infatti gli anglo-americani (ma anche i francesi) a liberare l’Italia dalla dittatura.
“Esportando”, così, la democrazia. Non dimentichiamolo. Grazie anche, è giusto dirlo, all’esercito sovietico. Che nel frattempo sconfigge la reale forza delle armate naziste sul fronte orientale. Ma che, se fosse arrivato fino all’Italia, avrebbe imposto anche qui una efferata e drammatica dittatura.
L’Italia, dal canto suo, aveva iniziato la guerra con il solito comportamento: l’opportunismo. Pur giunta, il peggiore opportunismo: quello dell’attacco alle spalle contro il paese storicamente più alleato dell’Italia, la Francia. E per giunta una Francia già sconfitta dai nazisti.
Una tradizione diplomatica poco raccomandabile
D’altronde, la stessa Unità d’Italia fu raggiunta con un comportamento opportunista tipico e ben conosciuto per secoli. Gli stati preunitari, e segnatamente la Savoia, ma anche quello del Papato, Venezia, la Toscana, e in qualche modo il Regno di Napoli e di Sicilia, avevano sempre e comunque giocato la carta dell’opportunismo: il cambio di alleanza, l’acquiescenza nei confronti del più forte, i voltafaccia, il salto sul carro del vincitore. Spettacolari i cambi di alleanza della Savoia nei secoli XVII e XVIII. Una memoria storica completamente sconosciuta alla stragrande maggioranza degli italiani di oggi.
E tutto questo è andato avanti da molti secoli. Per lo meno a partire dalla fine del secolo XV con la prima discesa francese in Italia all’epoca di Carlo VIII. Ma anche prima, molto prima, ad esempio con l’intervento di Pietro d’Aragona ad aiutare i siciliani dopo il Vespro. Rivolta siciliana che aveva cacciato in francesi solo temporaneamente. In buona sostanza, fin dai tempi del Medioevo. Una tradizione di politica internazionale che è benevolmente chiamata opportunista, spesso aggravata dal bluff con un fucile scarico. Più precisamente, è una storia diplomatica costellata di stucchevoli voltafaccia. Forieri di tragiche, terribili conseguenze a causa dell’impareggiabile presunzione e, a volte, dalla sopravvalutazione delle proprie forze, insieme alla irresponsabilità della classe dirigente. Come è successo in date cruciali: maggio 1915, giugno 1940, settembre del 1943, solo per citare quelle più conosciute, o “meno sconosciute” agli italiani.
La differenza tra aspirazioni popolari e scelte della classe dirigente
Ovviamente non tutti gli italiani hanno approvato le scelte della classe dirigente, anzi. Nel maggio del 1915 la maggioranza degli italiani era contro la guerra. Così come lo era nel giugno del 1940. E se nel 1940 guerra doveva essere, la maggioranza era semmai per una guerra contro i tedeschi. Così come lo era, ancor più, nel settembre del 1943.
Giustamente, nel 1943, in un moto d’orgoglio “garibaldino”, in molti si schierarono finalmente contro i nazisti. Ma per i capi, la classe dirigente fascista e fascistizzata dell’epoca, l’estate del 1943 fu un voltafaccia persino peggiore di quelli precedenti.
Perché era in buona sostanza dettato da considerazioni personali della classe dirigente compromessa con il fascismo: salvare il proprio, personale, fondoschiena. Tranne una minoranza avvelenata da una potente e bugiarda propaganda che si schierò fino all’ultimo a favore delle follie naziste, il fascismo distrusse se stesso una volta persa la convenienza, il vantaggio a “essere” fascisti.
Per la classe dirigente al potere, il cambio di alleanza del 1943 fu determinato dalle ripetute sconfitte militari e l’invasione: la certezza della sconfitta. Non certo da considerazioni d’opportunismo “nazionale” o dettato da ideologia o ovvio ribrezzo per il nazismo, come fu invece per i partigiani delle varie tendenze politiche. Una parte dei quali erano antifascisti o per lo meno pacifisti già da un pezzo.
Le efferatezze degli occupanti tedeschi fecero aumentare la rivolta partigiana. Ma senza le armi e i soldati degli eserciti alleati, americani, inglesi, francesi, polacchi, brasiliani, indiani, neozelandesi e tante altre nazionalità, non ci sarebbe stata liberazione dal nazifascismo, né l‘odierna Repubblica e tantomeno la democrazia e la libertà. Ricordiamolo.
Memoria storica è insegnamento
Insomma, è bene sapere tutto questo se si vuole progredire, se si vuole crescere. La memoria storica è importante e determinante per una classe dirigente e un popolo che anela a considerarsi tale e a vivere libero in un consesso internazionale, anche senza essere grande potenza economica e militare. Conoscendo meglio la storia, gli italiani potrebbero essere meno avventati nel formulare giudizi fantasiosi sugli altri paesi. Gli italiani potrebbero essere ad esempio, se non grati, per lo meno più realistici. Gioverebbe non poco.
Invece, sui social di oggi, in Tv, sulla stampa, persino nelle pubblicazioni di “grandi giornalisti”, o filosofi da strapazzo, si assiste ai discorsi più strampalati. Che appaiono dettati da una mancanza di memoria storica al limite della demenza. Dove la bugia, la fabbricazione di odio, la presunzione, l’ignoranza, la mancanza di memoria storica è una costante imperterrita e disarmante.
Studiare la storia, tutta la storia, dovrebbe essere finalmente un obbligo fin dalle scuole elementari con ulteriori approfondimenti nelle esperienze successive e, possibilmente, per tutta la vita. Altrimenti la memoria storica si perde fin nelle più alte sfere della classe dirigente.
Conoscendo meglio la storia si scoprirebbe infatti che l’Italia ha avuto molte volte un ruolo positivo e riconosciuto, a volte decisivo, nel panorama internazionale. Ciò è avvenuto a precise condizioni: quando ha saputo unire il sentimento generale degli italiani a favore della pace, della libertà e della democrazia, con le obiettive possibilità di coerente azione diplomatica.
Le virtù diplomatiche degli italiani
Lasciando stare il periodo iniziale del Regno d’Italia, già all’indomani della prima guerra mondiale la diplomazia italiana fu importante nel riconoscere paesi democratici rinati dopo il disgregamento dell’impero zarista. Prima tra tutti la Lettonia, il cui riconoscimento internazionale del gennaio 1921 fu caldeggiato con successo proprio dall’Italia, e in special modo dal diplomatico siciliano Pietro Tomasi della Torretta, zio dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
La Lettonia è solo un esempio. L’azione per porre termine alla guerra greco-turca del 1919-1922 e la conseguente Pace di Losanna è anche essa considerata da alcuni storici una vittoria diplomatica italiana. E ci sono altri esempi che sarebbe troppo lungo riportare qui.
Ma è soprattutto con l’avvento della Repubblica Italiana che l’Italia ha un ruolo importante nel facilitare il dialogo e il rafforzamento tra le nazioni democratiche. Tra i membri fondatori del nucleo iniziale dell’odierna Unione Europea, l’Italia ha saputo trarre beneficio per se stessa e il mondo dai propri errori. Ciò è avvenuto in molte occasioni. Laddove, cioè, ha tenuto chiara la ricerca di un mondo più civile e più giusto, più cooperativo: tentando di ridurre l’odio e alimentando la comprensione e la cooperazione. In queste occasioni l’Italia ha fatto e ottenuto il meglio sulla scena internazionale.
A volte anche con l’invio di forze militari a garantire la pace e le scelte democratiche, il progresso anche parziale verso un mondo non certo perfetto, ma per lo meno migliore. Come ad esempio in Libano, in Mozambico, in Albania. Qui, alla vanagloria e alla bellicosa presunzione, si è sostituita la consapevolezza del proprio ruolo di paese democratico che impara dalla storia propria e altrui. Superando persino i propri, angusti, limiti. Qui, la memoria storica dei propri vizi e delle proprie virtù è diventata capitale diplomatico.
Memoria storica per una coerenza di fondo
Da qualche tempo, purtroppo, tutto ciò è messo a dura prova. La classe dirigente italiana dovrebbe riflettere e non lasciarsi andare ad eccessivi e incauti apprezzamenti nei riguardi di efferati dittatori, morti o viventi, quali Gheddafi, Assad, Saddam Hussein, e tanti altri, ben più potenti.
Per il semplice motivo che questi modelli sono contrari all’idea di democrazia e libertà e sono invece in linea con il più autolesionista degli opportunismi, vizio antico ed evidentemente molto resiliente.
Se si conoscesse meglio la storia, se si avesse memoria storica, si capirebbe facilmente che questo genere di politica ha prodotto immani sciagure e va abbandonata al più presto. È necessario tornare a ragionare, anziché in termini di “sfere di influenza” o “interessi sovranisti”, in termini di condivisione della pace e della prosperità italiana.
Ciò passa dalla cooperazione con le democrazie del mondo e non dalla presuntuosa accusa o l’opportunismo foriero di tragedie. O, peggio, dal malcelato sostegno, diretto o indiretto, a regimi autoritari.
La memoria storica va dunque salvaguardata, coltivata rinnovata: è il capitale diplomatico dell’Italia, posto che ci sia una strategia democratica e una morale di base sempre presente.
L’azione del governo Draghi sulla crisi provocata da Putin con la brutale aggressione alla democrazia ucraina è un grande segnale di ritrovamento della migliore diplomazia italiana. E cioè quella di sostenere l’Ucraina e il mondo libero al cospetto dell’oscurità mondo dittatoriale e delle sue mire espansionistiche e disumane.