La figura di Vladimir Putin per le destre sovraniste, europea e americana, è stato un punto di riferimento inossidabile negli ultimi decenni al punto da considerare la leadership russa come un vero e proprio modello da seguire nella lotta contro la globalizzazione sociale ed economica a trazione americana. Una battaglia di retroguardia tanto ipocrita quanto già perdente che, tuttavia, ha affascinato leader e masse al punto da dominare il dibattito pubblico in Occidente, e in particolar modo in Italia, dove Salvini e Meloni – che di quella visione sono plastica incarnazione – continuano ad avere ad oggi un discreto seguito popolare.
Ma qualcosa sta cambiando. E non è solo scendere dal carro dell’(ex) vincitore. E’ qualcosa che ha più a che fare con una crisi strutturale del putinismo che coincide con la sua sostanziale debacle russa nella campagna d’Ucraina. La destra sovranista che ha perdonato a Putin di tutto, dalla violazione dei diritti umani, all’atteggiamento verso il covid, all’uccisione degli avversari politici, fino al bombardamento indiscriminato di civili e di ospedali, proprio non gli perdona la sconfitta sul campo.
“Il mito di Putin è stato scalfito dalla sua incapacità, finora, di vincere una guerra che ha voluto così fortemente. Quando sei un dittatore, un conto è essere considerato crudele; un’altra questione, molto più pericolosa, è essere considerato incompetente. E questo è successo molto velocemente”. Così si esprime Andrew Sullivan – giornalista conservatore, blogger e opinionista politico – nel suo blog Weekly Dish, evidenziando il cortocircuito in atto nella destra estrema occidentale, a lungo adorante nei confronti della figura forte dello zar moscovita e oggi orfana dell’idolo di riferimento. Da Trump a Farage, da Salvini a Orban, tutti uniti nell’osanna all’”ultimo baluardo contro il politically correct” e, adesso, tutti frastornati non dalla brutalità, ma, appunto, dalla inefficienza del russo.
Putin, insomma, in Ucraina, sta dimostrando di non essere all’altezza del mito che ha creato. A ben vedere – e Sullivan ben lo spiega – è tutta la narrazione del putinismo che sta venendo meno, pezzo dopo pezzo, mattone dopo mattone. Se per Salvini, Meloni & C. egli era l’estremo difensore dei valori della identità (rigorosamente cristiana) e della tradizione occidentale, non è un buon segno per lui (e loro) che, invece proprio quell’Occidente ritrovi una sua unità e una sua precisa identità attorno alla NATO e all’Unione Europea, su principi e valori del tutto opposti alla “weltaschauung sovranista”. Non è solo un mito che tramonta ma una visione macchiettistica dell’Occidente che crolla e dimostra la sua natura farlocca. Oggi, lo possiamo dire senza tema di smentita: l’Occidente non è quello che i sovranisti ci hanno raccontato nell’ultimo decennio a ogni latitudine. Non è reazionarismo ideologico e immaginario, ma è pragmatismo concreto per la difesa dei valori e ideali che da secoli lo caratterizzano. Mentre il sovranismo nazionalista, orfano di una vera identità, si rivolge retropisticamente a un passato che non esiste più e non può tornare (l’American first – o il prima gli Italiani di Salvini – si rifà a un tessuto sociale, economico, demografico non più esistente da decenni), l’Occidente sta dimostrando con coerenza e compattezza quali sono i valori e le scelte che ne hanno fondato la primazia per secoli.
L’America – ci dice Sullivan – non tornerà mai agli anni 50 e la Russia non dominerà più i suoi vicini come faceva l’URSS in quegli anni, e il prezzo da pagare per la narrazione reazionaria si è rivelato controproducente rispetto agi stessi obiettivi di quella stessa narrazione. Se Putin voleva sconfiggere il globalismo all’americana, ebbene quello stesso globalismo ha estromesso la Russia dalla politica e dalla finanza internazionale; e, se l’Europa vincerà la partita dell’indipendenza energetica, spingerà la sua economia ancora più in basso di quanto l’aveva fatta precipitare il comunismo marxista-leninista.
Per dirla con Sullivan, “l’iper nazionalismo di Putin ha generato la più grande presa di potere globalista dall’inizio della Guerra fredda. E lo ha fatto apparire ragionevole”. Tutto ciò pone – o almeno, dovrebbe porre – dei seri interrogativi alle destre occidentali sul modo in cui incarnare i valori del conservatorismo uscendo dalla spirale mortale del reazionarismo post-illiberale (che sovente è anche illiberale). In gioco, oggi più che mai, vi è la stessa sopravvivenza della destra perché – per citare ancora Sullivan – “la politica reazionaria post liberale fa rumore ed è violenta, ma non va da nessuna parte”.