di Fabrizio Fratini
I talebani riprendono possesso dell’Afghanistan. È il fallimento del tentativo di esportare democrazia in luoghi lontani dalla cultura politica occidentale.
Dopo vent’anni possiamo dirlo.
Dobbiamo però riconoscere che il fallimento è di tutti e non solo degli americani. Dove era l’Europa in questi venti anni e dove è adesso?!
La mancanza di un’unità tra Stati ci proietta ancora una volta in una emergenza che difficilmente saremo in grado di gestire, la “transumanza” dei profughi ai quali bisognerà però garantire umanità, per appunto distinguerci dai talebani che ovviamente applicano la sharia senza appello e la cancellazione in un solo colpo di tutti i diritti umani che, se pur con enormi difficoltà, in questi vent’anni avevano aperto proprio a Kabul, grazie all’occidente, uno spiraglio di idee con le quali confrontarsi.
L’unica soluzione per l’Europa in questo momento sembrerebbe la redistribuzioni tra Stati dei profughi che inevitabilmente arriveranno. Ma, come sappiamo, le difficoltà tra trattati e normative non garantiranno ad oggi una linea unica e comune e la paura è quella di rivivere una crisi che porta i suoi strascichi da molti anni proprio sul problema immigrazione. Di certo le soluzioni non sono quelle sovraniste alla Orban. Serve concertazione. Serve prospettiva. Serve capacità.
L’estremismo è solo il rovescio della stessa medaglia. È una battaglia che solo un’Europa unita e organizzata può fronteggiare. Anche la mancanza di un esercito europeo pone diverse questioni in essere. Saremmo stati oggi con un esercito degli Stati Uniti d’Europa in grado di contribuire ad una emergenza come questa? Probabilmente sì.
In termini ad esempio di organizzazione flussi, corridoi umanitari e redistribuzioni a perenne garanzia di un operato umanitario costruito su valori e ideali inclusivi e non estremi nella valutazione dei problemi stessi e, rimettendo addirittura mano a quei trattati già in essere come Schengen e Maastricht ad esempio, in una chiave di politica comune e non unilaterale ma risolutiva e identitaria allo stesso tempo in base alle diverse esigenze dei Paesi firmatari. Ma soprattutto saremmo potuti intervenire alla radice del problema Kabul investendo a livello politico come Stati Uniti d’Europa e non lasciando quindi sole tutte quelle persone, in particolare donne e bambini, che maggiormente rischiano oggi la prigione e la vita al posto della libertà, sfruttando magari quei tavoli di politica internazionali sostenuti da organizzazioni umanitarie che avrebbero potuto offrire una maggiore garanzia per il popolo afghano.
E forse l’Occidente non sarebbe stato visto solo come usurpatore ma magari come catalizzatore di quei diritti umani e di pace che avrebbero potuto estendere nuove prospettive.
Se l’Europa avesse una sola anima, oggi questa sarebbe al fianco di quella parte del popolo afghano che ha paura e incertezza per i propri cari e per la propria stessa vita. Solo investendo in un progetto europeo comune come unica alternativa sostenibile e praticabile nel garantire un futuro a tutti i popoli, l’Europa potrà affrontare le sfide future che saranno temibili e difficili sì, ma praticabili e risolutive.
Una salda politica comunitaria autorevole e non autoritaria sarà l’ambasciatrice di un cambiamento che potrà portare discernimento per tutti i popoli e il vezzo per l’Occidente intero.