Il risultato elettorale della Sardegna e il fallimento ormai scontato della lista unica alle europee hanno messo definitivamente in luce la necessità di una riflessione nuova, coraggiosa e profonda sul significato politico di un’iniziativa liberale. Se la necessità di costruire un partito che rappresenti veramente i numerosi cittadini liberali e democratici che in Italia non hanno ancora una casa politica non è più prorogabile, altrettanto non può essere prorogata la necessità di collegare la costruzione del nuovo partito a un altrettanto nuovo assetto istituzionale. Le due cose sono inseparabili, facce della stessa medaglia: l’emancipazione della comunità italiana. Per questo dobbiamo uscire dal contingente, dalle convenienze del momento, dalle elezioni di turno, dalla lista elettorale per superare la soglia di sbarramento, dalle alchimie delle leggi elettorali e delle alleanze, dalle letture superficiali e un po’ gossipare, semplicistiche. È necessario ripartire da un foglio bianco e definire strategia e posizionamento in un’ottica storica.
Le istituzioni democratiche italiane sono nate nel dopoguerra sulla base di un patto di non belligeranza, di accettazione reciproca, patrocinato da Stati Uniti da una parte e Unione Sovietica dall’altra, sicuramente agevolato dalla sconfitta del PCI nel “48”. Da questo patto deriva anche l’impianto costituzionale che, proprio dalla prima parte più che dalla seconda, ha generato la cultura cattocomunista. Una cultura cattocomunista che si è sedimentata diffusamente, andando oltre gli schieramenti politici e rappresentando le radici storiche del populismo sovranista illiberale di oggi, generando di fatto l’impossibilità di procedere verso quella che Bettino Craxi, più di 40 anni fa, chiamava la democrazia dell’alternanza e le pratiche politiche consociative denunciate 30 anni fa da Berlusconi, diventate il legame inscindibile attraverso il quale il partito unico populista sovranista illiberale sta in piedi con la convivenza delle sue correnti: destra, sinistra, centro. Tutto ciò è stato indotto dalle ragioni storiche geopolitiche che all’epoca rappresentavano indubbiamente la scelta più logica, migliore da fare.
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Il punto è che quel mondo non esiste più, una nuova epoca sta sedimentando sotto i nostri piedi e l’impianto costituzionale di oggi, essenzialmente la prima parte più che la seconda, non solo è totalmente inattuale, ma è anche da tempo dannoso per lo sviluppo economico, culturale e, appunto, per l’emancipazione della comunità italiana. Questo impianto va superato e costruire davvero, là dove Berlusconi ha fallito, la seconda Repubblica con la conseguente innovazione costituzionale, istituzionale, culturale e politica. Questa è la missione fondamentale dei liberali proprio nel momento in cui si pongono l’obiettivo di costruire un nuovo partito, due elementi inscindibili senza i quali il secondo, senza il primo, si riduce alla solita operazione centrista, una inutile terzietà che non riuscirà mai ad essere attrattiva verso quella parte di elettorato astensionista, ormai metà del corpo elettorale, succube del contingente.
L’alternativa al populismo sovranista illiberale è prima di tutto culturale, in una nuova ottica storica, conseguente alle trasformazioni della nostra epoca e allo scontro di civiltà in atto. Il punto è che i protagonisti della seconda Repubblica non possono essere gli eredi dei protagonisti che hanno costruito la prima. Calenda, Renzi, Bonino o chi per loro sono volti falliti della stessa moneta. Se la proposta politica che si vorrebbe nuova ha come riferimento l’attuale impianto costituzionale, questa è destinata al fallimento. Che si chiami Terzo Polo, Patto Repubblicano, Nuovo Centro, non ha importanza; partono da un’identità sfumata e più un’identità è sfumata, più prevalgono i personalismi, le cordate di potere che prima o poi, più prima che poi, entrano inevitabilmente in corto circuito. L’alternativa politica, essendo, appunto, in primis una alternativa culturale, non può che affermare il principio in cui la seconda Repubblica deve nascere alternativa alla prima. L’emancipazione della comunità italiana vuol dire una società fondata sul merito, sulle pari opportunità, sulla considerazione della disuguaglianza come elemento naturale di una società di individui, su uno stato minimo e una burocrazia non invasiva, sull’antitotalitarismo come elemento fondamentale dell’unità nazionale contro ogni forma di dittatura e di fondamentalismo politico e religioso, di cui l’antifascismo è solo una parte. Non è più tollerabile che in Italia metà della popolazione viva di stato e l’altra metà viva per mantenere lo stato. Statalismo, assistenzialismo, egualitarismo, masse devono rappresentare parole del vecchio linguaggio politico messo definitivamente al bando. Il partito del liberalismo italiano deve rappresentare il tramite con cui perseguire e realizzare il reale rinnovamento della politica, del suo linguaggio, dell’impianto istituzionale in cui opera; caso contrario, non ha senso. Usciamo dall’equivoco di una terzietà asfittica e inconcludente; solo così il liberalismo può affermarsi come alternativa al populismo sovranista illiberale.