Un cadavere sopra l’altro per un totale di undici; ma è verosimile che, in realtà, le vittime siano ventinove, fulminate a sorpresa. Gli orrori di Putin sono senza fine.
La nuova strage di cui si è macchiato, è avvenuta ieri l’altro nel centro di addestramento russo a Soloti, a Belgorod, a pochi chilometri dal confine ucraino: tre reclute musulmane hanno incrociato le braccia dicendo che non sarebbero andate combattere. Sono finite pure loro – scrivono oggi le principali agenzie di stampa e la Repubblica – assieme a centinaia di migliaia di altri, nella rete della grande mobilitazione ordinata dallo zar per trovare uomini da spedire al fronte. Dicono che “questa non è la nostra guerra”. Il colonnello Andrei Lapin, figlio del famoso generale Aleksandr Lapin, ha tentatp la carta del discorsetto motivazionale: ha detto che la guerra contro gli ucraini è come una guerra santa. Ma quelli hanno ribattuto che la guerra santa è una sola e si fa in nome di Allah contro gli infedeli. Il colonnello ha poi sbottato: allora questo Allah deve essere un codardo se non vi permette di combattere per un Paese al quale avete fatto un giuramento di fedeltà.
Due ore più tardi al poligono di tiro mentre si faceva pratica con le mitragliatrici, tre tagiki hanno fatto segno alle reclute che conoscono di allontanarsi, aprono il fuoco sul colonnello e sparano sugli altri soldati. Secondo la Tass uccidono 11 persone ma secondo il resoconto anonimo di uno dei feriti al sito Astra – e che è tutto quello che sappiamo finora di questa strage – i morti invece sarebbero 29, incluso il colonnello.
Le foto clandestine uscite ieri mostrano i corpi degli uccisi caduti uno sull’altro sulla pedana di legno. Succedeva anche nelle basi Nato in Afghanistan, quando a volte gli infiltrati dei talebani che si erano arruolati nell’esercito afghano alzavano le armi contro i loro compagni. Erano chiamati attacchi “green on green”, dove green voleva dire “i nostri”.
La grande mobilitazione – scrive Repubblica – è come una pesca a strascico e mette assieme gli emigrati dalle repubbliche dell’ex Unione sovietica con i russi che si considerano superiori, rispolvera le differenze etniche e religiose, eccita vecchi disprezzi, tira fuori l’odio irrisolto. Due giorni fa è uscito il video di due reclute kazake che pestavano una recluta russa che aveva usato una parola razzista contro di loro. Tre giorni fa è stato trovato morto il commissario militare Roman Malyk, di Partizansk – nella regione più a est della Russia. Si occupava della mobilitazione, la polizia deve ancora capire se si è suicidato o se è stato assassinato. C’è una componente di classe perché i reclutatori di Putin battono le zone più povere e meno connesse e poco i quartieri ricchi di Mosca e di San Pietroburgo. E dietro la differenza di classe c’è anche la questione religiosa.
Arriva ogni genere di racconto, senza possibilità di conferma. Un reparto di 300 reclute avrebbe ucciso il comandante e si sarebbe consegnato agli ucraini: meglio prigionieri che al fronte. In una telefonata a casa intercettata, una recluta spiega come sono usati i nuovi arrivati sul suo settore del fronte: i russi mettono sulla prima linea i detenuti che hanno accettato di combattere in cambio dell’amnistia; dietro di loro ci sono i mobik, che hanno l’ordine di impedire ai detenuti di abbandonare le loro posizioni; e dietro ai mobik ci sono i soldati veri, quelli addestrati, che guardano che le reclute non lascino la seconda linea.