Il conflitto tra Russia e Ucraina non è mai stato solo militare. Già lo si era intuito sin dall’inizio ma oggi ne abbiamo piena contezza e consapevolezza. E, ora più che mai, si rivela corretta l’intuizione originaria che portò qualcuno a dire che la linea di trincea della democrazia liberale oggi è a Kiyv.
Per Putin, infatti, il problema non è il Donbass, non è il presunto nazismo ucraino, non è la Brigata Azov. In fondo, non lo sono mai stati!
La vittoria per il dittatore russo deve essere totale: militare, politica e soprattutto antropologica. Questo è l’orizzonte di riferimento di Putin quando parla di “Occidente collettivo” indicando non solo un sistema politico ed economico di gestione del potere, ma anche e soprattutto un modo di essere, di vivere, un modello culturale di valori e di ideali penetrati in modo consustanziale nei cittadini a cui lui si sente profondamente alternativo.
La guerra dunque si sposta su un piano valoriale che vede contrapposti due modelli assolutamente irriducibili tra loro. Da una parte la democrazia liberale, dall’altro l’autocrazia. Da una parte l’illuminismo dei diritti individuali, dall’altro il tradizionalismo religioso-superstizioso che piega il singolo al prevalere del collettivo.
Insomma, due universi in collisione tra loro, radicalmente alternativi e senza possibilità di mediazione. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e del comunismo, si è pensato alla “fine della storia” (per citare Francis Fukujama) intesa come prevalenza assoluta e indiscutibile del modello occidentale, fatto di democrazia, ma anche di mercato e di consumismo globalizzato, di diritti ma anche di un certo allentamento della “morale collettiva” che fino ad allora aveva condizionato anche certe parti dell’Europa e degli Stati Uniti d’America. Sembrava una ineluttabile rotta tracciata per il destino dell’umanità. Magnifiche sorti!
A tutto questo Putin reagisce – in ciò, molto simile all’estremismo islamico – ergendosi a contro-modello tradizionale fondato su una superiorità quasi divina che affida al popolo russo il compito di rendentore della storia, di ripristinatore della tradizione. Si dirà.. perfettamente in linea con la storia russa, almeno dell’ultimo secolo. Anche Leinin e Stalin ritenevano che alla fine tutta l’umanità avrebbe accettato il comunismo come schema di esistenza totalizzante per l’individuo e per la società.
Ma oggi le cose sono molto diverse. Se cento anni fa, il modello occidente era effettivamente collettivo, intrinsecamente caratterizzante una comunità non solo geografica ma anche culturale, oggi lo è molto meno. Crepe importanti si sono aperte, e un certo modo (quello putiniano) di intendere l’umana esistenza è penetrato pure qua da noi, grazie a cavalli di Troia opportunamente creati, finanziati e utilizzati proprio dalla Russia.
Esiste cioè tutto un universo culturale in Occidente che si sente più vicino al modello russo che a quello liberale e che rivendica con orgoglio il nazionalismo, la chiusura nella tradizione, lo scetticismo verso realtà sovranazionali e, quindi, in ultima analisi, sfocia nella palese ostilità per la democrazia liberale. La vittoria di Trump nel 2016 con tutto ciò che egli rappresenta(va) – i movimenti nazionalisti foraggiati da Putin, il dilagare del sovranismo che strumentalizza il disagio sociale offrendo, per l’appunto, contro-modelli tradizionalisti – segnano un po’ tutto questo in un pericoloso piano inclinato dagli esiti incerti.
Basti pensare a come si è affievolita l’indignazione per l’invasione russa nell’opinione pubblica europea oggi più alle prese con le conseguenze economiche e sociali della guerra. La scommessa di Putin è che questo piano inclinato “si inclini” ancora di più, fino a provocare la caduta di quell’establishment che egli ritiene espressione politico-istituzionale di quel modello culturale.
Ecco perché la caduta di Boris Johnson in Inghilterra, e, soprattutto di Mario Draghi in Italia avverano un sogno per i russi. Quello di veder crollare i più grossi sponsor dell’atlantismo (Johnson) e dell’europeismo (Draghi). Da qui le provocazioni di Medvedev di fronte all’indebolimento del fronte (a lui) avversario.
In questo le colpe di Salvini, Berlusconi e Conte sono enormi non solo sul piano interno, ma anche su quello, appunto dei rapporti internazionali. D’altra parte, senza sfociare nel complottismo gretto, non è un caso che la crisi di governo sia stata generata proprio da quelle forze che più sono filorusse.
E la leader autonominatasi di quella coalizione? Che farà Meloni qualora divenisse presidente del consiglio? Infatti, se la leader di Fratelli d’Italia ha assunto una meritoria presa di posizione netta a favore dell’Ucraina condannando Putin per l’invasione, ella mantiene un’ambiguità di fondo che si riflette nelle alleanze internazionali che non intende mettere in discussione. E – sul piano interno e culturale – la visione del mondo di Donna Giorgia non è poi così distante da quella di Putin che, nel suo libro autobiografico, aveva elevao a modello di “difesa dei valori cristiani”.
Pertanto, è lecito aspettarsi che in caso di vittoria del centrodestra, il primo a goderne saranno proprio Mad Vlad e il suo fido accolito Medvedev.