Vent’anni senza Bettino Craxi: bene “Hammamet, ma spetta alla politica e non al cinema sanare le ferite

di Massimiliano Urbano 

Tutti gli anniversari sono momenti importanti. I ricordi hanno gioco facile su di noi. Spesso si mitigano i giudizi, si hanno ripensamenti. Altre volte per fortuna non si cambia affatto idea.

 Oggi ricorre un anniversario particolarissimo per la storia della politica italiana : il ventennale della morte di Bettino Craxi. Nessun uomo politico del secondo dopoguerra è stato più amato/odiato di lui. Lo sa molto bene Claudio Martelli, la persona che indubbiamente gli è stata più vicina nei momenti d’oro, nei celeberrimi anni della “Milano da bere”, dell’Italia quinta potenza mondiale. Non è un caso che egli abbia voluto intitolare la sua ultima fatica letteraria, dedicata proprio a Craxi, “L’antipatico” . Eppure è già un campione d’incassi in vetta alle classifiche di vendita. 

 

Contrariamente ad altri protagonisti che ci hanno lasciato, intorno a Craxi c’è obiettivamente ancora tanto interesse ma anche tanta divisione. Le ferite non sembrano essersi ancora del tutto rimarginate. Del resto come dimenticare ciò che accadde davanti all’Hotel Raphaell, residenza romana di Bettino Craxi. Fu quasi linciaggio. Il lancio di quelle monetine è ancora impresso nella memoria di tutti noi.

La circostanza della morte è certamente poi uno degli episodi che più amplifica i contrasti tra le due “fazioni”. Da una parte vi sono coloro che lo reputano un rifugiato politico dall’altra invece chi lo considera un latitante. Ciò che è certo è che Craxi era malato e non per finta come qualche suo detrattore insinuava. Il diabete era ad uno stato molto avanzato, il cuore malandato era resistito ad un infarto ed i reni versavano in pessime condizioni, tanto che poco prima di morire aveva superato a fatica un delicato intervento. 

Era tale la sua cattiva salute che ad un certo punto persino Massimo D’Alema gli tese la mano offrendogli un volo per tornare in Italia a curarsi. Come sappiamo Craxi non accettò. Descrive molto bene il periodo di permanenza ad Hammamet, l’omonimo chiaccheratissimo film di Gianni Amelio, che soprattutto grazie ad una eccezionale interpretazione di Pierfrancesco Favino , in assoluto stato di grazia, quasi una reincarnazione, magistralmente ci racconta gli ultimi mesi di vita dello statista. 

Fu per Craxi un periodo doloroso, di solitudine ed infrante speranze di dignitoso rientro in Patria. Di perdita di potere, di avvicinamento alla morte. Nel film viene descritto l’uomo ormai anziano, non più il governante vigoroso e battagliero. In queste settimane sono apparse miriadi di recensioni al film. Confermo non essere certo esagerati i complimenti rivolti ai truccatori ed al protagonista. Auspico meritevoli di premio. 

Reputo però che spetti alla politica non al cinema sanare le ferite. Di tutto quello che ho letto in merito, ciò che mi ha colpito di più è una sorta di auto-recensione proveniente dall’aldilà. Non ho trovato firma e di seguito la trascrivo ad omaggiarne il suo autore condividendola.

“Da questo altrove dove da quasi vent’anni ormai mi trovo, da questo mio secondo e definitivo esilio (o seconda e definitiva ‘latitanza’, a voler seguire certi finissimi teologi eretici medievali, di cui peraltro non sono mai stato granché esperto) ho avuto modo di visionare il film che quel bravo regista, Gianni Amelio, ha voluto dedicarmi. Ebbene mi ci sono in parte ritrovato. In parte, naturalmente. ‘In partibus infidelium’ era il sottotitolo che – potendo – avrei voluto suggerirgli per la sua opera: era questa la qualifica con cui venivano indicati quei vescovi cristiani che dopo che le loro sedi episcopali erano state conquistate e occupate dall’Islam ne conservavano tuttavia la titolarità formale. E così mi sono sentito io, per i lunghi anni in cui è durata la vicenda che il film racconta: ‘Segretario del PSI in partibus infidelium’, avendo io voluto continuare ad essere Craxi anche dopo che Craxi era già finito e sconfitto da un pezzo. L’ultima, e forse la più perdonabile, delle mie tante arroganze o debolezze che mi pare il film bene racconti. 

Non sono mai stato un grande esperto dell’arte cinematografica, pur avendone frequentato con piacere protagonisti e protagoniste più o meno illustri: primum vivere, poi, solo poi al massimo, andare anche al cinema. E dunque mi astengo dal dare un giudizio critico, essendo io figlio di un’epoca in cui lo spettatore faceva lo spettatore e il critico cinematografico faceva il critico cinematografico. E tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna riconoscere, e che tutti del resto mi pare riconoscano, è la grande capacità mimetica di quell’attore, Favino, chiamato a interpretarmi sullo schermo e che mi dicono essere oggi tra i più in voga, apprezzati e richiesti: la mia vanità, notoriamente tutt’altro che esigua, ne è stata pienamente soddisfatta. 

Forse molti si aspettavano da questo film i nani e le ballerine che hanno fatto da invadente, e non nego bene accolto, corollario alla mia vicenda politica tanto da diventarne persino ingenerosa sineddoche: non ci sono, sebbene se ne intuisca, in lontananza, una certa eco. Del resto per raccontare quel campionario sarebbe forse servito un Fellini, con cui non a caso ho persino condiviso una qualche Musa, o il vostro moderno succedaneo, Sorrentino. Non c’è nemmeno la mia vicenda politica, il sangue e la merda della mia vicenda politica; posso giurare, senza che la storia possa ormai incaricarsi di dichiararmi spergiuro, che furono abbondanti entrambi: se – e in che misura – l’uno prevalse sull’altra o viceversa è un giochino che volentieri lascio a voi posteri. C’è solo (ma non crediate sia poco) il dramma di un potente non solo non più potente ma addirittura sull’orlo, e forse oltre, della disgrazia e del disfacimento. C’è insomma davvero più Shakespeare che Rino Formica: purtroppo o per fortuna, giudicherete voi a seconda del vostro parziale punto di vista…”.