“Il Trumpismo è stato sconfitto”. Forse si, o forse no
“Il Trumpismo è stato sconfitto! Il COVID-19 ha cancellato il sovranismo!” Forse sì, o forse no. Esistono le fantasie e poi esistono i fatti. E i fatti ci raccontano, ahimè, una storia diversa. Trump ha perso, ma ha comunque conquistato quasi 72 milioni di voti; che sono 10 milioni di voti in più rispetto alle elezioni del 2016. Biden ha vinto, ma il partito democratico ha subito una sonora sconfitta nelle elezioni per il rinnovo del Congresso. Sul ruolo tanto sbandierato del COVID, oltretutto, non sappiamo nemmeno con certezza come sarebbero andate le cose se la pandemia non avesse devastato la società americana.
I controfattuali e gli ipotetici poco si prestano all’analisi politologica. Oltretutto i dati che vediamo in questi giorni raccontano una storia, potenzialmente, molto diversa. Nelle contee più colpite dal virus, sia per numero di infetti che di morti, Trump sembra vincere e di molto su Biden. Se il virus ha avuto un qualche ruolo nella sconfitta di Trump non è certo per i morti, ma per il prezzo pagato in questi mesi dall’economia a stelle e strisce. Il meccanismo causale non è ancora chiaro, ma questo risultato è probabilmente dovuto al successo del presidente uscente nel convincere il suo popolo che il COVID-19 non è più pericoloso della semplice influenza.
Insomma, non certo il trionfo della razionalità, del politicamente corretto e delle buone maniere come vorrebe qualche commentatore italiano orientato a sinistra. Al contrario, quei 72 milioni di americani che credono in Trump sono qui per restare e nei prossimi anni rappresenteranno la spina nel fianco dell’amministrazione democratica che nasce debole e tormentata dalle lotte intestine tra i neoliberisti e la componente socialista del partito. Tra loro, i Trumpisti, troviamo certamente i fanatici cospirazionisti di QAnon.
Ai media europei piace molto mostrare le immagini di questa America strana e bizzarra, uscita da un vecchio film anni ’80, ma anche qui cerchiamo di non illuderci. Sebbene in crescita, il pericoloso culto cospirazionista di Q rappresenta solo una minoranza fatta di pochi milioni di individui, che sorprendentemente include anche elettori vicini a Bernie Sanders, a fronte di quasi metà della popolazione americana che ha ancora creduto nel Presidente.
Trump dal canto suo lo sa bene. Così come sa bene che, nonostante le numerose possibilità di essere processato (si va dalla corruzione, alla frode fiscale, al falso in bilancio, etc.) è diventato praticamente intoccabile, pena l’assunzione a martire, e potenzialmente ricandidabile nel 2024. Insomma il Trumpismo e con lui il sovranismo non stanno sparendo. E illudersi del contrario può avere conseguenze molto pericolose.
Il Commissario per la sanità in Calabria e i relativi insegnamenti
Attaccare il governo per la vicenda del commissario ad acta per la sanità in Calabria, il generale Saverio Cotticelli, che essendo stato nominato dal governo giallo-verde prima della pandemia, quindi anche indirettamente da quel Salvini che da par suo, ha tempestivamente attaccato i responsabili di tale misfatto, inconsapevole del suo oggettivo coinvolgimento, non ha mai realizzato in oltre nove mesi di pandemia di essere anche responsabile del “Piano Covid” della stessa regione di cui era il responsabile della sanità, sarebbe come sparare sulla Croce Rossa.
Certo si tratta di una gaffe imperdonabile, che ha fatto indignare l’intera nazione, in particolare giustamente i Calabresi, ma che appare in tutta la sua gravità non solo per i fatto in sè, ma soprattutto per le verità nascoste e le conseguenti gravissime responsabilità che questa vicenda rivela e denuncia.
Perché la vera questione è che, a parte il Piano Covid del tutto ignorato, il generale Cotticelli è stato nominato commissario per risanare e riorganizzare la sanità Calabrese il 7 dicembre 2018, quindi quasi due anni fa, quale ennesimo commissario di un comparto amministrativo che risulta commissariato da quasi dieci anni.
Uno scandalo nello scandalo, che la dice lunga sulla incapacità dello stato di trovare soluzione ai problemi del Paese. Ma tornando a Cotticelli e ai suoi due anni, è evidente che in tutto questo periodo sembra che non abbia fatto praticamente nulla rispetto al mandato commissariale che aveva ricevuto, e quindi la vera domanda è come ha fatto il governo, i Ministri competenti, le varie autorità dello stato a non accorgersene e a restare del tutto inerti, lasciando la sanità calabrese a macerare nella sua autodistruttiva e interminabile inedia?
A nessun responsabile è venuto mai in mente di vedere a che punto era la questione? Di chiedere un aggiornamento dello stato della sanità calabrese rispetto alle molteplici problematiche a base del commissariamento? Di non disporre alcun controllo, nessuna verifica, nessuna ispezione? Neanche di chiedere un resoconto del lavoro svolto in occasione dei ripetuti rinnovi? Neanche per verificare il Piano Covid? Funziona davvero così, in Italia, il sistema pubblico?
E quello ancora più delicato delle centinaia di gestioni commissariali via via istituite e che hanno avuto probabilmente la stessa sorte della sanità calabrese? Cioè della serie fatta la nomina, risolto il problema? E soprattutto funziona così ad ogni livello burocratico e lavorativo nel settore pubblico, in cui controlli e verifiche sono stati di fatto cancellati, e l’unica speranza è di affidarsi al senso di responsabilità dei singoli, essendo il sistema anestetizzato in relazione alle esigenze di dare servizi efficienti ed efficaci ai cittadini?
Purtroppo la risposta è affermativa.
Ecco perché nel nostro Paese abbiamo una burocrazia che soffoca il sistema economico e perché non si riesce a trovare soluzioni al problema del corretto funzionamento dello stato, mentre il settore privato, ovviamente opera in condizioni ben diverse in termini di produttività, efficienza e efficacia.
Fino a quando la politica abdicherà al suo ruolo che non può essere solo di indirizzo, ma anche e necessariamente di verifica e controllo, non ci sarà alcuna possibilità di reale cambiamento e di ripresa dal declino cui sembriamo condannati senza speranza.
Per questo occorre lottare per una incisiva riforma della burocrazia e soprattutto per il ripristino di un sistema di verifica e controlli ad ogni livello amministrativo, che riesca a fare valere i principi della meritocrazia, dell’impegno e della gratificazione per il lavoro svolto bene, che non a caso costituiscono i valori di indirizzo che ispirano la proposta politica della Buona Destra, che è nata per dare discontinuità all’attuale degrado e per sensibilizzare l’opinione pubblica italiana sulla esigenza di impegnarsi per uno Stato più efficiente e per una burocrazia finalmente all’altezza delle aspirazioni di un Paese che vuole ritrovare competitività e alti standard di qualità della vita per i suoi cittadini.
Nel frattempo niente paura. Il nuovo commissario alla sanità in Calabria nominato dal governo è un negazionista della pericolosità della pandemia e ritiene la mascherina un orpello inutile.
Chi meglio di lui per realizzare un ottimo piano Covid per la Calabria?
Europa, è di nuovo tempo di Ventotene
di Francesco Rubera
Il 9 maggio di 70 anni fa Robert Schumann annunciava al mondo intero la nascita di una
comunità radicalmente rinnovata nei suoi principi fondamentali di democrazia e di solidarietà tra gli stati europei che la ispiravano. Nasceva il primo processo democratico di pacificazione e unificazione tra Stati che, fino a pochi anni prima, erano usciti nemici dallo scontro della guerra e che sceglievano la pace, non per allearsi contro un nemico, ma consapevoli di unirsi, costretti dalla minaccia esterna della povertà del dopoguerra e consapevoli di voler creare le basi di una Europa migliore , cancellando le atrocità della guerra infame, famosa alla storia per il disprezzo della vita umana dell’olocausto, foraggiato dal razzismo spietato della follia collettiva nazista. Settanta anni dopo si celebra questo anniversario Europeo con una minaccia differente rispetto a ieri, ma la cui pericolosità mina la coesione e il futuro dell’Unione.
Le conseguenze della pandemia tra lutti e crisi economica non sono meno di una terza guerra mondiale, non sono meno rispetto a quelle atrocità storiche. Quando una epidemia sfugge di mano non conosce tempo e spazio, diventa endemica, peggio della guerra. È una guerra contro la scienza, contro la natura e di conseguenza contro l’economia, diventando un nemico infallibile, imbattibile, molto più forte di un esercito di legionari e soldati di mestiere.
Il sistema produttivo è crollato e con esso crescono le diseguaglianze fra le lavoratrici e i lavoratori, distruggendo il substrato di coesione sociale e di partecipazione dei lavoratori nel processo produttivo creato dal dopoguerra ad oggi, ma è crollato definitivamente un sistema produttivo obsoleto, slegato dall’ ecosistema e tutto ciò a discapito dei più esposti , con forte impatto sulle categorie più deboli nelle nostre comunità. Tuttavia, grazie alla storia del dopoguerra, dopo settanta anni di esperienza e di integrazione sociale, i cittadini europei escono molto più forti e consapevoli della necessità di restare uniti ad affrontare il nemico della crisi globale. È necessario fondare con spirito innovativo e critico una nuova realtà che dia una spinta verso la Costituzione democratica degli organismi europei sovranazionali, verso un modello di stato democratico federale, negato in tempi di sterilità di pensiero dal referendum Olandese e Francese, e che sino ad oggi, dopo la creazione dell’Europa monetaria, sovrasta la democrazia popolare e impedisce lo sviluppo e l’emancipazione dell’Unione verso uno stato federale.
Il Parlamento europeo e la Commissione europea, oggi, debbono avere il coraggio di elaborare un nuovo grande “Progetto per l’Europa“, trasformando la pandemia in opportunità, facendo di questa lotta necessaria una virtù che ci accompagni verso una nuova fase di integrazione europea tra stati membri ,tra popoli e nazioni figlie dell’impero romano. Una Europa fondata su fattori comuni, legati dai valori delle culture coesive e delle tradizioni che ci accomunano tutti, unendo i cittadini Europei sotto la stessa casa della città eterna che li ha nazionalizzati storicamente e culturalmente, verso una condivisione di valori non slegati e scissi dal concetto di sovranità. Una Europa che vada oltre i confini degli stati membri europei, ma che abbia un organismo dotato di poteri di rappresentanza e rappresentatività del popolo mai visti prima d’oggi nella sua storia, quali strumenti di democrazia di uno stato federale che riceva dignità di parola e credibilità a livello mondiale. Solo questo cambiamento potrà accompagnare l’Europa verso un processo di competizione economica nel mondo globalizzato, attraverso un modello di economia rispettoso dell’ecosistema e di ecologia che sappia coniugare l’uguaglianza delle opportunità e
lottare contro le diseguaglianze della povertà, attraverso un processo di inclusione sociale indirizzato verso un concetto nuovo e nella direzione dell’obiettivo della piena occupazione e del contrasto alla precarietà non conformi alla sostenibilità di una crescita ecologica.
Per realizzare tutto ciò occorre modificare il passo verso una nuova strategia industriale, che comprenda la cooperazione, che dia spazio allo sviluppo della ricerca, nella direzione di un sistema di formazione scolastica che punti al ricambio generazionale, alla parità di genere, verso forme di partecipazione civile, di equa distribuzione della ricchezza e di rinnovata linfa di democrazia economica, insieme con lo sviluppo della comunicazione e lo sviluppo del pluralismo dell’informazione, quarto potere di ogni stato, che supera le teorie Montesquieuiane del concetto di democrazia. Sono trasformazioni necessarie, sfide future che non possono essere ignorate in un mondo globalizzato, trasformato e diverso rispetto a 70 anni fa nel suo quadro geo-politico totalmente riformato e rivoluzionato.
Solo una cosa accomuna l’Unione di oggi con quella del 1950, e noi sopravvissuti di questa transizione, possiamo gridarlo al mondo: ” la necessità di far emergere l’interesse comune europeo che sia in grado di modificare gli egoismi statali e la logica che li ha sorretti negli ultimi 20 anni dopo la nascita della moneta unica verso la direzione di una Unione europea che abbia l’obiettivo di trarre dei vantaggi comuni per tutto il continente e non solo diretta a realizzare vantaggi per i singoli stati membri, in una visione europea dell’etica della crescita contrapposta alla visione europeista consociativa che ha retto l’unione sino ad oggi”.
Per questa ragione occorre una unione federale degli Stati Uniti d’Europa, poiché è giunto il momento di voltare pagina verso un “patto rifondativo” che sappia dare risposta alla crisi pandemica di dimensione planetaria. E’ tempo di una nuova rinascita per l’Europa. È tempo di respirare l’aria di Ventotene e dei suoi ideali che la ispirarono. E’ tempo di rispolverare le idee di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni per restituire dignità politica ad una entità moribonda, ferita profondamente dal coronavirus.
La caduta di Trump, una buona notizia per la Buona Destra
Le elezioni americane ci devono fare riflettere. Se i numeri verranno confermati da eventuali riconteggi Joe Biden avrà portato a casa un risultato straordinario. In quella che sarà ricordata come un’elezione record per numero di votanti, il candidato democratico avrà nettamente superato il Presidente uscente, Donald Trump, conquistando Stati tradizionalmente Repubblicani, come l’Arizona e la Georgia, interrompendo così la tradizione che vede tutti i presidenti, con rare eccezioni, investiti di secondo mandato. Questa elezione verrà anche ricordata come l’inizio della rivoluzione del sistema partitico a stelle e strisce. Un percorso che nella più estrema delle ipotesi potrebbe forza traghettare l’America fuori del tradizionale bipartitismo che contrappone Democratici e Repubblicani.
La oggi presunta vittoria di Biden è in gran parte dovuta certamente all’odio che metà del paese prova per Donald Trump. Ma anche al suo essere figura sostanzialmente moderata e di continuità con la presidenza Obama. Un candidato che non è politicamente nè esaltante nè innovativo, ma che è stato in grado di rassicurare l’America sul fatto che dopo la svolta populista a destra, il paese non si tufferà a capofitto nella sinistra liberale (leggi socialista) di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez. Una considerazione, sostenuta dai dati elettorali, che fa presagire l’aprirsi di una profonda crisi nel partito che fu di Kennedy e Clinton.
In queste ore, nel parapiglia del conteggio dei voti, il partito democratico si è reso infatti conto che la vittoria di Biden nasconde una bruciante sconfitta. Non solo i democratici non sono riusciti, almeno per adesso, a conquistare la maggioranza del Senato, ma hanno perso terreno nella House of Representatives. La tanto sperata “blue tide” (l’onda blu) non è avvenuta. In un balenare di accuse reciproche, i moderati puntano il dito contro i colleghi “Democratic Socialists” rei, a loro dire, di aver sbilanciato il partito su posizioni estreme. Posizioni che hanno finito paradossalmente per penalizzare proprio i candidati centristi e moderati che si sono trovati a combattere contro i repubblicani in seggi non blindati dall’utopistica narrazione “woke” delle grandi città liberal del paese. Loro, i liberals, negano ogni responsabilità e leggono la sconfitta come l’indicazione della necessità di spostarsi ancora di più a sinistra, dimostando la miopia tipica dell’integralismo marxista.
Non è certo un segreto che negli ultimi tempi il partito si sia focalizzato unicamente sulle minoranze di genere e su quelle razziali, scelte peraltro in modo molto selettivo e in base ad un insostenibile metro di purezza ideologica, perdendo contatto con la maggioranza del Paese. Accecato dalla propaganda postmodernista sfornata dalle Università degli stati costieri, il partito ha dato l’impressione di essersi dimenticato completamente della classe media e delle identità più tradizionali, come ad esempio quelle religiose, quando non ha apertamente assunto posizioni di ostilità nel loro confronti. Identità che però rappresentano oggettivamente la maggioranza dei suoi elettori.
Il 3 Novembre, questa strategia ideologia radicale non ha però pagato, se non nelle fantasie militanti di AOC e della sua “squad” che vede il mondo in bianco e nero, diviso tra buoni (loro) e cattivi (tutti gli altri). La strategia non ha pagato soprattutto perchè mentre il partito democratico virava a sinistra lasciando indietro i propri elettori, il partito repubblicano ha saputo tra mille difficoltà partorire una Buona Destra. Il Lincoln Project, di cui abbiamo ampiamente parlato in queste pagine, ha capitalizzato non solo il malcontento dei molti repubblicani scandalizzati dalla politica populista del Presidente uscente, ma anche quello di molti democratici spaventati dalla sempre più forte spinta verso l’epurazione di tutto ciò che non si conforma ad un’idea stereotipata di diversità, fatta a colpi di tasse e di improbabili e finanzialmente insostenibili programmi assistenziali.
La cosa estremamente interessante è che la fuga verso la buona destra del partito repubblicano non è limitata unicamente al classico cluster demografico del maschio bianco caucasico, ma si è osservata anche nelle donne e soprattuto nelle persone di colore. A ben vedere, anche Trump è riuscito ad intercettare un maggior numero di voti provenienti dalle periferie afro-americane e dei latinos. Ma il tycoon ci è riuscito sfruttando ancora una volta la loro frustrazione e grazie ad un fenomeno inquietante: il cospirazionismo di QAnon. Il movimento che è riuscito a far eleggere almeno un suo rappresentante nel prossimo Congresso americano.
Il recente messaggio alla Nazione, in cui Trump si autodichiara vincitore e letteralmente urla di presunti complotti e brogli già smentiti anche dagli osservatori internazionali dell’OCSE, è un chiaro segnale volto a mobilitare in suo favore, anche violentemente, questo network internazionale sempre più presente anche in Italia dove esiste grazie alla scellerata operazione populista di Meloni e Salvini, ma soprattutto nei cosiddetti movimenti identitari che li supportano. QAnon è un misto tra un gioco di ruolo e un’elaborata campagna di trolling mediatico che si oppone al presunto compolotto (apolide-pluto-giudaico-massonico) del Deep State. La paranoia la fa da padrona tra questi leoni da tastiera che annoverano tra loro purtroppo anche esponenti delle forze armate e delle forze di polizia; per loro Trump è il Messia, l’ultima speranza prima del presunto Global Reset che, grazie al COVID-19, farà cadere il mondo nelle mani della grande finanza internazionale. Sconfitto Trump, il Lincoln Project e il centro moderato che speriamo abbia la meglio nel partito democratico devono opporsi con ancora più convinzione a QAnon.
In Italia siamo ancora molto indietro e lo spettro di un governo a guida Meloni o Salvini, che sempre più si allienea alla retorica complottista, si erge minaccioso sul futuro post-pandemico del Paese. Per questo, oggi più che mai, serve una Buona Destra che si allei con il Lincoln Project e con gli altri movimenti della buona destra europea in quello che Filippo Rossi chiama Fronte Repubblicano e io, forse immodestamente, ribattezzerei il Fronte della Civilità.
Le arancine e gli arancioni di Sicilia
di Francesco Rubera
Quando lo Stato allunga i suoi tentacoli sulle libertà, quando si impone in nome della salute pubblica, valore assoluto e primario su tutti i beni dell’uomo, ove neanche la più feroce arroganza riuscirebbe a reggere il confronto, ecco che nessuno può confutare. Si creano gli idoli della verità assoluta, della ragione che svuotano il Parlamento, delegittimato dalla paura popolare, subordinandolo al potere assoluto della scienza asservita ai capi e al presidente dell’esecutivo.
Quando questo avvenne negli anni 20 del secolo scorso, si generò il mostro del totalitarismo, della dittatura. Oggi, sta nascendo un mostro molto più pericoloso di quelli che storicamente conosciamo, perché avallato e non contraddetto dalla sudditanza popolare che confonde la rivoluzione culturale con la rivolta popolare, dando voce e forza al peggior pericolo per le democrazie: la dittatura populista.
Questo governo sta introducendo metodologie di comunicazione che con l’aiuto di esperti e giornalisti assoldati, riesce a distruggere ogni speranza di libertà rimasta in Italia. Il declino delle libertà sta distruggendo l’Italia sotto il ciclone del virus killer. Il fenomeno italiano dimostra che l’opinione di un virologo, assoldato dalla politica, comanda più della politica.
E allora vuol dire che la democrazia è in netto declino. Delegare gli “esperti” che non possono essere contraddetti significa devolvere la democrazia ai tecnocrati, subordinare il parlamento eletto dal popolo democraticamente, al potere esecutivo in nome della salute: bene superiore anche persino alla democrazia.
La democrazia che si affida alla conoscenza della tecnocrazia annullando la libertà di espressione del popolo e’ una democrazia morta, che cede al totalitarismo in nome della scienza che non essendo ancora giunta alla verità sul virus può chiedere e chiudere tutto, anche se basata su mere ipotesi, non importa, qui comanda lei (la scienza).
Epperò avviene che accanto ad una scienza ipotetica che studia, non concretamente sicura, ove esistono pareri incontrovertibili, esiste una politica insicura e grezza che devolve, ma comanda a distanza. E’ il gioco dello Stato che crea il bisogno, per trovare la soluzione, la necessita politica di salvare vite, economia, aziende, insomma, di creare eroi, accanto ad una famiglia da salvaguardare un individuo da tutelare, lo Stato continua a spendere i soldi dei contribuenti, sforando i limiti di ogni ragionevole debito pubblico.
Stiamo andando ad incrociare la schiavitù senza rendercene conto. E quando la scienza viene usata dalla politica per elaborare teorie incontestabili in nome di una tutela di bisogni assoluti, solo allora il progetto assolutistico prende vigore, il popolo si piega.
La Sicilia divisa tra arancini e arancine oggi è tutta arancione. Non è più una battuta o una diatriba popolare tra leggendarie lotte Catanesi contro Palermitani che risalgono a epiche ricette ottocentesche. L’unità dei siciliani è tutto dentro un DPCM creato in nome di una scienza che nessuno conosce, ma che la politica conosce bene. Siamo terra di conquistati in cui trovano sfogo i conquistatori.
Digital divide e squilibri nella distribuzione delle frequenze, Assoprovider scrive a Patuanelli
Innovazione digitale, Agenda digitale, Fondo per l’innovazione. Tutte belle parole, ma nei fatti l’Italia per le licenze d’uso delle frequenze è ancora in alto mare. Nel nostro Paese il digital divide è per molti aspetti una barriera ancora insormontabile, che non si risolve con i vari bonus per l’acquisto di pc e dispositivi telematici, ma con il potenziamento delle reti.
Molte aree del Paese, specie quelle interne, vivevano questa difficoltà da molto prima del Covid-19. Ma oggi, con la maggiore richiesta di wi-fi per lavorare in smart working e per la didattica a distanza, la questione sta trasformandosi in una vera e propria emergenza. Il problema è particolarmente serio in Campania, nelle zone del Sannio e dell’Irpinia, come spiega l’imprenditrice Antonella Oliviero, componente del consiglio direttivo di Assoprovider. “Lo scenario Covid imporrebbe una azione di potenziamento delle reti per tutto quanto attiene l’aspetto comunicazione e sicurezza, e invece il Governo non intervenendo mette sostanzialmente in crisi il sistema – dice -. A tal proposito, penso di poter denunciare in rappresentanza dei wisp presenti nel Sannio ed in Irpina un grave stato di disagio che ci ha portati ad inviare una lettera aperta al ministro Patuanelli affinché si adoperi per modificare la normativa in tema di frequenze licenziate. Tale situazione non farebbe altro che costringere alla chiusura tanti piccoli operatori del settore. Il digital divide è un problema soprattutto per le zone interne e l’attuale situazione imporrebbe scelte fondate sulla collaborazione e non penalizzanti” .
Una situazione molto seria, tanto che Dino Bortolotto, presidente di Assoprovider, ha scritto al ministro Patuanelli per segnalare la necessità di contributi ministeriali per le licenze d’uso delle frequenze. “Centinaia di imprenditori italiani da anni stanno erogando l’accesso ad internet a milioni di cittadini in special modo a quelli collocati nelle zone più disagiate del Paese – spiega -. Il crescere in queste ultime settimane della misure che riportano i cittadini a dover far uso quotidiano e continuativo delle attività a distanza, stanno facendo crescere le necessità di connessioni ad alta velocità e poiché da tempo segnaliamo al Mise ed all’Autorità garante delle comunicazioni (Agcom), come una azione del suo ministero potrebbe consentire una diretta ed immediata crescita delle prestazioni delle connettività Fixed Wireless Access erogata a milioni di cittadini serviti dalle nostre imprese”.
“La prego di verificare con urgenza se, mediante l’uso di ponti radio che facciano uso delle frequenze licenziate, sia possibile un rapido e significativo incremento della banda disponibile sulle dorsali dei provider internet (da un raddoppio fino ad una decuplicazione), che si tradurrebbe automaticamente in un notevole miglioramento della banda erogata agli utenti finali in termini di capacità complessiva e qualità, similare alla fibra ottica – spiega Bortolotto -. Le frequenze licenziate punto-punto non rappresentino una risorsa scarsa, visto che in Italia il loro attuale utilizzo è inferiore al 2% della disponibilità totale, e l’attuale importo dei contributi amministrativi rende economicamente proibitivo usare le frequenze licenziate punto-punto per realizzare dorsali con cui servire zone con poche decine/centinaia di utenti. Peraltro, i contributi amministrativi italiani risultano i più alti dell’Europa e sono fino a 10 volte maggiori di quelli richiesti da altri paesi europei”.
“L’utilizzo delle frequenze licenziate punto-punto è regolato in termini economici da quanto disposto dall’allegato 10 art.5 del vigente Codice delle Comunicazioni ed in virtù di quanto disposto dall’art 220 del medesimo codice comunicazioni lei Ministro, di concerto con il Ministro dell’Economia, lo può modificare in qualsiasi momento con un semplice decreto ministeriale immediatamente operativo – chiede Assoprovider -. Da anni tutte le forze politiche in Parlamento propongono la riduzione degli importi dei contributi amministrativi delle frequenze licenziate punto-punto, ottenendo sempre un diniego dai Ministeri competenti, con la motivazione che questa riduzione porterebbe ad una riduzione del gettito derivante dai contributi amministrativi. Le chiediamo. Ministro, come sia possibile che la piena ed immediata integrazione digitale di cittadini in zone disagiate sia ostaggio dei pochi milioni di euro del gettito dei contributi amministrativi imposti sulle frequenze licenziate, mentre contemporaneamente ci possiamo permettere aiuti pubblici sui voucher per miliardi di euro”.
L’associazione dei provider italiani, che domani dovrebbe incontrare Patuanelli in una riunione, ha chiesto chiaramente che questo bene, in massima parte inutilizzato, sia reso pubblico per diventare uno strumento di reale contrasto al digitale divide, ponendo così fine allo stesso tempo alla enorme distorsione alla concorrenza tra grandi operatori nazionali e piccoli operatori locali, rappresentata dal meccanismo di sconto quantità il quale consente una differenza del 400% tra il contributo amministrativo pagato da un piccolo utilizzatore e quello pagato da un grande utilizzatore dello stesso identico bene pubblico.
“Chiediamo al ministero di non attendere oltre e di applicare lo sconto quantità del 75% a tutti gli operatori con meno di 50mila utenti – conclude Bortolotto -. Con questa formula i piccoli operatori incrementeranno immediatamente l’utilizzo delle frequenze licenziate punto-punto, con conseguente incremento anche del gettito che andrà a mitigare, se non forse addirittura ad annullare, l’eventuale diminuzione del gettito determinato dall’applicazione dello sconto del 75% ai soggetti con meno di 50.000 utenti, mentre il gettito di tutti gli altri soggetti resterà invariato”.
Parigi e Vienna: le numerose somiglianze
di Arianne Ghersi
Ciò che è avvenuto in questi giorni in Francia ed in Austria indica azioni intrinsecamente accomunabili.
Per troppo tempo l’Europa ha ignorato la potente rete di jihadisti presente nel mondo, anche se numerose letture tradotte nella nostra lingua avrebbero potuto facilitarci. Mi sovviene un testo che ho consultato di recente: “La scelta di Said” in cui si narra la vicenda di due giovani ragazzi marocchini che hanno vissuto alla periferia-bidonville di Casablanca. Si deduce da questo libro, seppur di narrativa, il passaggio rapido della propaganda jihadista dai vecchi schemi in cui i contatti venivano presi direttamente con i possibili combattenti all’interno delle moschee, ad oggi, invece, in cui tutta la propaganda si diffonde in realtà grazie al web.
Si crede, erroneamente, che ciò che oggi vediamo come terrorismo non abbia legami con il passato e che si possa catalogare come semplice odio verso “l’occidente”. Questa visione è tendenzialmente miope, in quanto il popolo europeo dovrebbe assumere maggiore consapevolezza storica dato che in nord Africa e Medioriente gli equilibri politici sono cambiati a seguito del crollo dell’impero ottomano, agli accordi di Sykes-Picot e al successivo abbandono delle colonie. Questi eventi sono da collocare in anni distanti, ma hanno impattato in modo determinante sulle popolazioni. Sappiamo che sono nate realtà statali che i popoli stessi forse neanche sentivano e spesso le autorità delegate non avevano quell’esperienza storica che ogni singolo stato europeo ha saputo crearsi in seguito ad anni di scontri e lotte a volte per piccoli lembi di terra.
Quanto ho appena descritto ha portato ad un malessere e ad una facile colpevolizzazione dell’invasore. Lungi da me giustificare la violenza, il mio intento è cercare di comprendere i motivi che spingono le azioni terroristiche.
Ad oggi, possiamo vedere come sia ormai avvenuta la dissoluzione dell’Iraq e come la Siria sia sospesa ad un filo, sempre “tirato” dalla potenza di turno per garantirsi un appoggio da parte del presidente Assad in vista di una sua completa ripresa del potere.
Queste “ingiustizie o “incoerenze”, lascio al lettore decidere di cosa si tratti, hanno determinato la situazione attuale. Ciò che stupisce è lo stupore manifestato dall’Europa.
L’attivista tunisina Amina Sboui, ricordata più comunemente per aver protestato in piazza esibendosi a petto nudo, nel suo libro “Prigioniere” descrive come certe zone del paese siano assoggettate ad una visione dell’islam radicale. Per esperienza diretta posso affermare che l’atmosfera respirata nella capitale Tunisi sia decisamente diversa da quella percepita a Qayrawan (Kairouan), città storicamente importante perché fu la capitale del governatorato dell’Ifriqiya nel periodo califfale islamico, dove anche un osservatore poco attento percepirebbe una maggior diffusione di usanze a noi meno affini. Questo dimostra come non ci si possa stupire che l’attentatore in Francia fosse tunisino. Dovremmo forse comprendere che la Tunisia non è tutta come Hammamet dove, a torto o a ragione, gli italiani vengono ricordati con affetto e dove il nome di Craxi è vivo come non mai.
Allo stesso modo, non ci dovrebbe “stupire” ciò che è avvenuto in Austria. L’attentatore, sicuramente supportato da una rete di connivenze e fiancheggiatori, risulta essere di origini macedoni. I dati che ho potuto consultare circa la reale adesione di foreign fighters provenienti dall’est Europa sono in contraddizione tra loro, ma ciò su cui mi voglio soffermare non è un fattore prettamente numerico infatti ciò che è emerso è che quest’ultimo terrorista fosse già stato attenzionato per le sue posizioni radicali. Ho potuto percepire da molti media italiani lo sgomento verso una tale presa di posizione da parte di un uomo proveniente da tale zona geografica. Voglio ricordare in tal senso come le ottime ricerche condotte da Marta Serafini (riportate nel suo recente libro “L’ombra del nemico”), descrivano un personaggio determinante, Omar Al Shishani che sembra svolgesse un ruolo chiave per l’Isis come incaricato di reclutare jihadisti ceceni o più in generale del Caucaso: il suo vero nome sembra fosse Tarkhan Tayumurazovich Batirashvili, nato in Georgia nel 1986, già conosciuto nel suo paese di provenienza per un’accusa legata al possesso illegale di armi da fuoco.
Quanto descritto dovrebbe servire a porre l’attenzione su temi fondamentali che siano più utili rispetto alla stigmatizzazione dell’altro. Sono convinta che la lezione che si può apprendere dal caso francese sia l’importanza di un maggiore controllo del territorio, soprattutto in Italia, che aiuterebbe a contrastare il passaggio indisturbato di certi criminali verso altri paesi, garantendo due cose decisive: il rispetto del territorio italiano e una reale tutela per chi scappa davvero da guerre e violenze. Il caso austriaco dovrebbe sottolineare invece che reati “semplici” come la detenzione illegale di armi o l’inneggiare verso posizioni estremistiche non siano solo intemperanze legate alla giovane età, ma a volte possono essere il preludio di grandi ed evitabili tragedie.
La lezione dalla Francia: abbandonare il laicismo e abbracciare la laicità liberale
di Andrea Molle
Tutte le democrazie mature occidentali si ispirano, chi più chi meno, al principio della separazione tra Stato e Chiesa, laddove per Chiesa si intende non solamente l’esperienza cristiana ma in generale la religione dominante o almeno prevalente nello Stato.
Tale principio, un pilastro della cultura occidentale che sancisce la netta separazione tra le sfere della politica e della religione non è tuttavia da considerarsi come “naturale”. Anzi, è facilmente dimostrabile come, sia nelle società antiche che in molti paesi non occidentali, politica e religione siano quasi completamente fuse l’una nell’altra, senza tuttavia che ciò comporti problemi di ordine pubblico. Tale separazione era originariamente intesa come una forma di protezione della religione dalle ingerenze della politica, mentre oggi la si intende quasi esclusivamente come il contrario.
Emergendo alla fine della Guerra dei Trent’anni e sancita dal Trattato di Westphalia, solo poco più tardi essa divenne il baluardo della laicità. Nel sistema post-westphaliano, che vide anche la nascita del concetto stesso di Stato Nazione che dunque riposa sulla piena autonomia della politica, la separazione tra Stato e Chiesa finì poi per evolversi in due modelli sostanzialemente opposti.
Il modello liberale angloamericano che, pur prevedendo una netta separazione tra le due, non rinnega la religione come un importante elemento dell’esperienza sociale e anzi tutela apertamente la possibilità per individui religiosi di essere attivi nella sfera pubblica o politica. Questa scelta ha permesso agli Stati Uniti di evolversi in un mercato religioso aperto che sebbene non certamente perfetto, nè privo di discriminazioni, tutela il diritto di ogni cittadino di praticare liberamente la propria religione e vederne i valori competere sul mercato delle idee. Non a caso negli Stati Uniti la religione non è che molto raramente la causa di conflitti civili o di violenza, perché essa può esprimersi liberamente.
A questo modello si contrappone quello statalista francese, che subordina la pratica religiosa allo Stato e ne proibisce le manifestazioni pubbliche considerandola implicitamente come un pericolo per la tenuta delle istituzioni democratiche. Il modello francese crea dunque una dicotomia artificiale tra cittadinanza e pratica religiosa che non esiste nel mondo angloamericano.
La religione viene vista come una reminescenza di un passato pre-illuminista destinata a scomparire, un fatto privato di cui in fondo vergognarsi. Questa falsa certezza, che riposa sulla teoria sociologica pseudo-scientifica e cristiano-centrica della secolarizzazione, ha di fatto inibito le possibilità di reazione del paese di fronte al ritorno della religione sulla scena pubblica. Anzi, sarebbe meglio dire che quella scena la religione non l’ha mai abbandonata davvero, ma ha solamente maturato rancore, forza e incisività nei decenni in cui è stata mortificata, repressa o anche solo ignorata.
In Francia, come abbiamo avuto modo di vedere, il ritorno della religione in politica si è oggi purtroppo manifestato con un incremento della minaccia terroristica islamista. Per l’Islam più radicale infatti il principio di separazione tra politica e religione è un vero e proprio attentato all’esistenza. Non deve cogliere di sopresa il fatto che sia proprio nella religione che il disagio delle seconde e terze generazioni di immigrati, fortemente delusi dall’esperienza fallimentari di integrazione in Francia come in molte altre nazioni europee, ha trovato un punto di forza. La Francia ha ignorato per troppo tempo la situazione di degrado socio-economico delle sue banlieu preferendo far finta di nulla. Allo stesso tempo ha cercato di imporre forzatamente la laïcité, spingendo nell’ombra la religione islamica invece di comprendere come questa, nelle sue forme moderate, avrebbe potuto mitigare il disagio.
Ciò ha fatto sì che i suoi praticanti, esclusi dalla competizione politica, non abbiano trovato altre strade che quella di radicalizzarsi per contrapporsi ad una società laicista che vedono come l’antitesi dei propri valori e la causa dei propri mali. Il fatto che il conflitto sia con l’Islam radicale, si badi bene, accade unicamente perché esso è la religione maggiormente praticata nelle fascie sottoprivilegiate della società francese. In altre circostanze, le violenze potrebbero facilmente coinvolgere i praticanti di una qualunque altra tradizione religiosa, perché il problema sta nel sistema sociale che provoca il conflitto: il laicismo esasperato che non distingue tra religiosità moderata ed estremismo.
La recente proposta di legge promossa dal presidente Macron, che prevede un radicale cambio di rotta e il principio secondo il quale l’educazione religiosa debba essere considerata e finanziata come un mezzo di dialogo interculturale e di integrazione, è stata un ottimo passo avanti, ma è arrivata, come si dice in America, too late and one dollar short (troppo poco e troppo tardi).
Per troppo tempo la Francia, ma anche il resto dell’Europa, ha ignorato che la religione, o meglio la religiosità, è parte integrante della condizione umana. Per troppo tempo ci siamo cullati nel mito che la religione fosse tutta cattiva e destinata a sparire, per far spazio alla sola ragione, chiedendo alla scienza risposte che non può darci. Anche oggi la prima reazione è stata quella di unirsi al coro della repressione, all’urlo di “basta religione”. Ma è proprio la repressione, più o meno velata, che ha creato il problema del radicalismo e non possiamo certo pensare che un problema si possa risolvere con la stessa logica che lo ha creato. La religione esiste e, per quanto ne sappiamo, esisterà sempre in una qualche forma.
Una cultura democratica matura non cancella una dimensione importante della vita dei propri cittadini solo perché non la riconosce o la disprezza. Dovrebbe invece integrarla, e creare le condizioni perché questa si possa esprimere al meglio, nel rispetto di tutti. È tempo di imparare la lezione e cambiare drasticamente la rotta, abbracciando il modello laico liberale angloamericano, proteggendo le istituzioni politiche dagli estremismi ma tutelando la libertà religiosa individuale in tutte le sue espressioni pacifiche, e creare finalmente le condizioni per un libero mercato religioso nel nostro continente.
La Buona Destra contro il sovranismo
di Marco Mensi
La parola sovranismo è entrata prepotentemente nel nostro linguaggio quotidiano ormai da alcuni anni, ma dove nasce e dove si sviluppa il sovranismo di cui oggi tutti parliamo?
A memoria d’uomo questo termine è stato utilizzato per la prima volta dal movimento sovranista del Quèbec che ambiva ad ottenere l’indipendenza (e quindi la sovranità…) della provincia francofona dal resto del Canada. Nel continente europeo la prima esponente politica a parlare di sovranismo, secondo l’accezione che oggi intendiamo è stata invece la francese Marine Le Pen che ha presentato il Front National come un movimento sovranista.
La Le Pen voleva e vuole che la Francia torni ad essere sovrana nel suo territorio, padrona a casa sua, senza ingombranti e fastidiose influenze esterne da parte dell’Unione Europea. E Matteo Salvini con la sua nuova Lega ha ben pensato di seguire questo esempio, trasformando un partito regionalistico in una forza politica nazionale di ispirazione, non a caso, lepenista.
Lega e Front National (oggi Rassemblement National) sono movimenti sovranisti e populisti perchè, lo ricordiamo, non si può essere sovranisti senza essere anche populisti. Il populista di destra è colui che sostiene di proteggere e difendere il popolo dalle èlite, che identifica nei politici di professione e nei burocrati dell’ Unione Europea che vivono a Bruxelles.
Se quindi Silvio Berlusconi, un populista ma non un sovranista, attaccava il politico di professione, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, la quale ha ben pensato di seguire il capitano leghista su questa strada, attaccano invece i burocrati di Bruxelles. Il sovranismo è la risposta che i partiti della destra radicale hanno fornito alla crisi economica del 2008 e alle Primavere Arabe che hanno destabilizzato a loro volta l’area medioorientale soprattutto con le guerre civili in Libia e in Siria, favorendo indirettamente la partenza di quei “barconi della speranza” carichi di immigrati che sbarcano nell’ isola di Lampedusa e in altri porti europei (cd. paesi di primo approdo).
La democrazia liberale è entrata in crisi e oggi si parla sempre più di una possibile “democrazia illiberale” che non peraltro si è affermata in Ungheria con il Primo Ministro Viktor Orban, il sovranista per eccellenza che ha instaurato nel suo paese un vero e proprio regime autoritario .
La Buona Destra nasce per combattere il sovranismo e il populismo, per affermare la supremazia della democrazia liberale su quella illiberale, perché i cittadini capiscano che l’unico sovranismo possibile è solo ed esclusivamente quello degli Stati Uniti d’Europa. Le attuali istituzioni dell’ Unione Europea devono essere modernizzate e rese più democratiche, il principio della unanimità deve essere superato e sostituito con quello della maggioranza, si deve giungere ad una politica estera e di difesa uguale per tutti gli stati membri che resteranno liberi invece di disciplinare le materie di esclusivo interesse nazionale.
Per raggiungere questo risultato dobbiamo però restare all’interno dell’Unione Europea e della moneta unica, proclamare ai “quattro venti” il ritorno alla lira o al franco (in Francia), sostenere la necessità di uscire dalla UE non sono ragionamenti seri ma semplici slogan diretti esclusivamente alla “pancia della gente” che è sempre più disorientata davanti alle grandi crisi del nostro tempo, a cui si è recentemente aggiunta anche la pandemia .
La “Buona Politica” deve essere illuminata e deve guidare i cittadini verso un futuro migliore: un bravo politico deve governare secondo le sue convinzioni e perseguire sempre ciò che ritiene giusto senza farsi condizionare in continuazione dai sondaggi. Margareth Tatcher docet.
Per questo motivo è nata la Buona Destra.
Minimalisti e sistema sanitario
Capita ancora, girovangando sui social, di leggere post di persone che sono al confine, tra minimalizzazione e negazionismo della pandemia in atto. Oltre ai classici no-mask, no-vax e no-tutto, infatti, si incontrano post di utenti che, probabilmente, vivono in un mondo virtuale tra pagine facebook e canali YouTube di “cazzari” senza pietà. Si parla di ospedali vuoti ed addirittura di attori che recitano la parte di malati in terapia intensiva, magari intubati, arrivando a spacciare teorie strampalate, che parlano di migliaia di asintomatici ricoverati, al solo scopo di riempire i posti letto disponibili negli ospedali. Il senso per cui qualcuno, qualche forza oscura superiore, avrebbe progettato tutto ciò, non è dato sapersi, ma quando si vive sempre con l’ansia di un complotto immaginario, quando si cerca sempre un “cattivo” di turno che manovra tutto dall’alto, è difficile che si sia lucidi per poter ragionare a dovere.
Chi, come me, gli ospedali li frequenta per lavoro o, ancora di più, chi lavora direttamente all’interno dei raparti, invece, la situazione non solo la conosce bene, ma la tocca con mano, quotidianamente. Spesso, vivendone i risvolti sulla propria pelle.
Come la Primavera scorsa, i reparti CoVid, di molte strutture ospedaliere, iniziano ad essere saturi di pazienti malati e, per questo motivo, altri reparti vengono quotidianamente riconvertiti per poter assicurare le cure ai pazienti positivi con sintomi. Già, perché non un solo asintomatico è ricoverato. Gli asintomatici, infatti, rimangono in isolamento fiduciario a casa mentre, in ospedale i posti letto sono occupati da pazienti in Terapia Intensiva e Sub-Intensiva, in quanto richiedono cure mediche adeguate, supporto respiratorio e personale specializzato.
Questo, purtroppo, genera l’esigenza di reperire sempre nuovi spazi, sopratutto quando, come in queste settimane, la pandemia non riesce più ad essere contenuta, portando ad un drastico aumento dei pazienti che necessitano di cure. E questo, di conseguenza, porta a dover chiudere altri reparti per riconvertirli alle esigenze CoVid, non assicurando più le necessarie strutture per la cura di altre patologie.
Quando le persone che pensano che la pandemia non esista, parlano di aumento di mortalità causato da altre patologie o di assenza di assistenza per queste, purtroppo, non vanno molto lontano dalla realtà, ma è la motivazione a sfuggire, in quanto manipolata ad arte dai creatori di bufale e dai sobillatori sociali.
Fin dall’inizio di questa pandemia, infatti, si è sempre sottolineato che, oltre alla mortalità diretta ed alle complicanze associate al virus, l’aspetto più preoccupante sarebbe stato il riflesso sul Sistema Sanitario, a causa dell’alta virulenza dell’agente patogeno. E questo, così come in primavera, sta avvenendo proprio in questi giorni, portando alla sospensione dell’erogazione di molti servizi da parte di numerose strutture ospedaliere delle zone maggiormente colpite.
Questo è uno dei motivi principali per cui si cerca di combattere il più possibile la diffusione della pandemia, anche prendendo misure limitative della libertà personale di tutti noi. Non ci si può permettere, infatti, di far saltare del tutto l’assistenza sanitaria del paese ed il diritto alla salute dei cittadini, a prescindere se positivi o meno a questo nuovo virus.
La situazione attuale, quindi, porta a due considerazioni riguardo il Sistema Sanitario Nazionale, una che parte da lontano, circa il suo indebolimento nel corso degli anni, l’altra, più recente, circa il mancato rafforzamento di questo nei recenti mesi estivi. Già, perché nei mesi che hanno preceduto la prevedibile, ed ampiamente prevista, seconda ondata, nulla è stato fatto per rafforzare il nostro SSN. I partiti di governo ed opposizione, si sono scontrati su posizioni ideologiche e di bandiera riguardo il MES, i cui fondi sarebbero stati fondamentali per assicurare spazi, personale e dotazioni adeguate ad affrontare la situazione che oggi ci vede in difficoltà.
Le carenze strutturali sono rimaste tali ed i posti in Terapia Intensiva, teoricamente da raddoppiare in quanto tagliati negli ultimi quindici anni, sono rimasti in fase progettuale e, dei 4000 posti previsti in più, solamente un migliaio sono stati portati a termine. Senza contare gli spazi CoVid sub intensivi che in diverse regioni stanno venendo approntati solamente in questi giorni, affrontando una disperata corsa contro il tempo. Inoltre, quando alcune cariche istituzionali e della Protezione Civile dicono “abbiamo acquistato i ventilatori polmonari, quindi i posti letto si sarebbero potuti fare”, si scordano, volutamente, di dire che un posto letto di TI non è un ventilatore polmonare. Per creare un effettivo posto letto di TI, infatti, al ventilatore bisogna aggiungere lo spazio necessario (spesso carente), il personale qualificato (non assunto) e tutta una serie di altre attrezzature da acquistare in parallelo (spesa complessiva economicamente più ingente del solo ventilatore polmonare). Aspetti che non vengono mai considerati e che ricadono in un confine nebuloso tra le competenze nazionali, incaricate delle spese sanitarie legate all’emergenza, e le istituzioni regionali, a cui è affidata la gestione del Sistema Sanitario Nazionale.
Al netto delle evidenti carenze gestionali, sopratutto in visione precauzionale, assoggettabili alle istituzioni centrali, un’ulteriore sottovalutazione è invece assoggettabile agli amministratori locali, Governatori ed Assessori alla Sanità regionali in primis. Tra Giunte Regionali che hanno prefissato protocolli differenti e misure cautelative diverse, Assessorati che hanno preventivamente acquistato notevoli quantità di materiale necessario, tra tamponi e mascherine, passando dai guanti fino ai disinfettanti, ed altri che, colpevolmente, non lo hanno fatto, i diversi livelli di assistenza sanitaria garantita nelle 20 regioni italiane, oggi è più evidente che mai.
La crisi pandemica in atto, quindi, una volta superata, dovrà portare ad un completo ripensamento riguardo il nostro Sistema Sanitari Nazionale, sia dal punto di vista del potenziamento, tramite lo stanziamento di fondi adeguati sempre più scarsi negli ultimi anni, sia attraverso una de-regionalizzazione che ha portato gli abitanti delle diverse regioni italiane, ad avere livelli di assistenza sanitaria totalmente diversa tra loro. Non si dovranno più vedere situazioni in cui, anche senza emergenze sanitarie in atto, un cittadino di una Regione abbia diritto ed accesso a cure ed esami a cui, un abitante di una regione diversa, non ha diritto. Il livello dell’assistenza sanitaria e le prestazioni erogate dovranno essere, nuovamente, uguali per tutti, e questo potrà essere possibile solamente ripensando la gestione del SSN a livello centrale. La regionalizzazione, in questi anni, ha portato una diffusa sperequazione territoriale a fronte di tagli economici più o meno sostanziosi a seconda del territorio considerato, con conseguenti livelli assistenziali diversi.
Siamo una Nazione, il diritto alla salute e, di conseguenza alla tutela di questa, deve essere assicurata ed identica per tutti.