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In questa crisi politica serve una Buona Destra

In questa crisi politica serve una Buona Destra

Febbraio 3, 2021 by eleonora.celestini in News

di Gabriele Iuvinale

Al netto delle responsabilità del Governo Conte e delle forze politiche che lo hanno fin qui sostenuto, l’attuale crisi ha fatto emergere la vera e drammatica esigenza: avere subito una destra moderata, moderna, liberale, europeista, competente anche su questioni complesse, capace di dialogare con tutti, anche e soprattutto a livello europeo.

Una destra che sappia fare anche un passo indietro per il bene del Paese e che abbia il coraggio di osare quando invece i tempi lo impongono. E questo è il momento di osare. Non è più tempo di attendere.

Salvini e Meloni hanno dimostrato tutta l’irresponsabilità di cui sono portatori. Le elezioni anticipate avrebbero significato l’ingovernabilità della Nazione nel suo momento più drammatico dal dopoguerra ad oggi, con il popolo abbandonato al proprio drammatico destino.

L’incapacità di questi soggetti di mettersi al servizio del Cittadino è, dunque, ampiamente certificata.
Dobbiamo dire basta a questi personaggi.

Francia e Germania hanno una destra moderna e liberale che fa di quegli Stati un modello di esempio.
Anche l’Italia ne avrebbe bisogno.

L’Italia ha bisogno della Buona Destra.

 

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La riforma del Titolo V, ovvero la paralisi delle amministrazioni pubbliche

La riforma del Titolo V, ovvero la paralisi delle amministrazioni pubbliche

Febbraio 2, 2021 by filippo.rossi in News

Sarà stata anche la più grande riforma costituzionale dal 1948 ad oggi, ma quella del 2001 del Titolo V che attribuisce totale autonomia alle Regioni avrà anche avuto nelle intenzioni una spinta modernista e federalista, ma ha nella realtà dei fatti rappresentato la totale supremazia del potere burocratico di questo Paese e il conseguente indebolimento dello Stato.

Perché nei 20 anni trascorsi ormai da quella riforma è stato sempre più evidente quanto la modifica del Titolo V abbia sostanzialmente avuto due, gravi, conseguenze: sono state minate le fondamentali esigenze di certezza del diritto e abbiamo assistito inermi alla paralisi, spesso totale, del funzionamento delle istituzioni pubbliche.

In due parole: caos istituzionale. Perché al di là delle buone intenzioni, Stato e Regioni continuano a porsi come guelfi e ghibellini in lotta per la supremazia. Una guerra sulla pelle dei cittadini, specie in campo sanitario.

Faccio un esempio recente: l’avvio della campagna vaccinale anti Covid-19. Ogni Regione ha scelto il proprio sistema, le proprie piattaforme informatiche, le proprie liste d’attesa. Ma non tutto è andato per il verso giusto, con enti locali che hanno saputo far fronte alla mole di richieste e altri – emblematico l’esempio del Lazio di Zingaretti, che è anche segretario di uno dei due principali partiti di Governo – che sono andati in tilt. Creando uno squilibrio tra cittadini.

Inutile la proposta alle Regioni del commissario per l’emergenza Arcuri di utilizzare tutti la piattaforma unica delle Poste. Lo hanno ignorato tutti, Zingaretti in primis. Coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

L’autonomia regionale così come è oggi serve solo a creare disparità tra i cittadini che vivono in una parte o nell’altra del Paese.

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Discriminazioni di genere, serve una rivoluzione culturale

Discriminazioni di genere, serve una rivoluzione culturale

Gennaio 28, 2021 by guest in News

Di Bruna Lamonica e Lara Attandemo

La violenza contro le donne rappresenta un globale ed importante problema di sanità pubblica, oltre che una grave violazione dei diritti umani.

Un recente documento delle Nazioni Unite ha riportato un incremento dei casi di violenza di genere durante la pandemia da Covid-19, affermando che la maggior parte di essi avviene in famiglia, da parte di mariti o ex o conoscenti, e non deriva da raptus di soggetti violenti.

Il processo discriminatorio a cui la donna è stata ed è tuttora sottoposta rimarca l’atteggiamento mentale patriarcale non solo di gran parte degli uomini, ma anche di larga fetta della popolazione femminile. Il contrasto alla violenza di genere deve, pertanto, diventare sempre più una questione socio culturale che riguarda trasversalmente la famiglia, le classi sociali, le intere comunità.

Il Piano Strategico Nazionale sulla violenza contro le donne ha come obbiettivo quello di colpire le radici della cultura della violenza, attuando politiche rivolte al campo dell’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza. Intende diffondere la cultura del rispetto che previene la violenza stessa, attuando programmi integrati che coinvolgano scuola e famiglia, aumentando il monitoraggio dell’aspetto linguistico e tematico, veicolando le informazioni che contengono in maniera esplicita o velata stereotipi di genere, immagini e linguaggi sessisti.

Ma è indubbio che l’attenzione nei confronti della violenza di genere deve crescere ancora. Le associazioni e i centri antiviolenza, nati al fine di supportare donne maltrattate permettendo un graduale recupero dell’autonomia, hanno un ruolo centrale in queste dinamiche e come tali hanno bisogno di finanziamenti immediati e a programmazione pluriennale. Il presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e sui servizi antiviolenza ha rilevato che i finanziamenti per tali centri e per le case rifugio sono aumentati, ma che non sono realmente arrivati a destinazione per l’intero. Servono, quindi, programmazioni e trasferimenti in tempi celeri, oltre all’impegno di stringere intese vincenti tra Stato e Regioni.

La relazione ufficiale sul bilancio di genere per l’esercizio finanziario 2019, che contiene un monitoraggio dei divari di genere e un’analisi delle principali politiche tributarie, oltre che ad una riclassificazione contabile delle spese secondo una prospettiva di genere, rivela che il nostro Paese rimane l’ultimo in Europa in termine di divari nel dominio del lavoro; che il forte radicamento culturale dei diversi stereotipi su immagini e ruoli di genere vede attribuire alla donna quello  principale della cura della casa della famiglia; che ben il 53% delle donne ha interiorizzato tale stereotipo. L’asimmetria di genere nella distribuzione delle responsabilità e delle cure domestiche e familiari comporta inevitabilmente l’impossibilità di conciliare l’occupazione femminile di qualità con tali cure, soprattutto se manca un supporto di reti familiari.

Nella sopra citata relazione trova poi ampio spazio il riferimento al fenomeno della violenza che ha origine negli squilibri di potere profondamente radicati nelle norme sociali e culturali. La violenza economica è una delle maggiori violazioni dei diritti umani, in quanto colloca la donna in una condizione di forte dipendenza che consente all’uomo di trattarla come oggetto di proprietà, essendo lui quello che provvede alle necessità economiche della famiglia.

L’attuale Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ha disegnato le linee guida aventi tra le missioni prioritarie la riduzione dei divari di genere. Questo piano, tuttavia, non ha ancora chiarito con quali strumenti e con quante risorse si vuol procedere. Le linee progettuali centrate sulla parità di genere, infine, non si focalizzano sull’imprenditorialità femminile, sulla difficoltà delle donne di accesso e di carriera nel mondo del lavoro, sui differenziali retributivi, sulla discriminazione ed iniquità. Si concentrano, invece, su temi sì importanti come famiglia e asili nido, ma che confinano, ancora una volta, la donna in certi settori e in determinate mansioni.

Le ragioni culturali ed istituzionali impediscono la promozione della donna nel mercato del lavoro, perché il problema non viene trattato sotto la luce giusta: ammodernamento del paese e discriminazione presente nell’offerta. Occorrono azioni concrete che promuovano riforme di innovazione al sistema educativo, affinché i talenti delle rappresentanti della metà della popolazione possano essere utilizzati in modo efficiente, destinando ad essi livelli di produttività non inferiore a quegli degli uomini.

Bisogna puntare sulla selezione meritocratica, abbattendo il pensiero discriminatorio che nasce dal fatto che una donna, in quanto tale e ancora peggio se madre, non possa dedicare il proprio impegno al lavoro di qualità o non possa configurare ai vertici di aziende di prestigio. E’ il considerare la donna come un “uomo inabile” che permette l’avvio di tutta una serie di mancanze e di valutazioni scadenti e che pone le basi di un sessismo troppo spesso sfociato in violenza.

 

 

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Nuovo esecutivo in vista, governo tecnico o si ritorna al voto?

Nuovo esecutivo in vista, governo tecnico o si ritorna al voto?

Gennaio 22, 2021 by guest in News

di Pasqualino Trubia 

In questi giorni, in queste ore l’incertezza è massima. Cosa accadrà? Conte rassegnerà le dimissioni? Si cercherà di formare un nuovo governo tra impasti e rimpasti? Si accettano scommesse.

In questo periodo falcidiato dall’emergenza sanitaria che si protrae da quasi un anno non ci siamo fatti sfuggire l’immancabile crisi di governo.
Leggendo rapidamente i dati della storia della nostra Repubblica possiamo constatare che dal 1948, anno che ha concluso i lavori dell’assemblea costituente, al 2021, quindi in 73 anni di storia, si sono succedute 18 legislature per un totale di 66 governi. In pratica la media della durata di un governo italiano è poco meno di un anno.
Pare evidente che l’Italia sia un paese ingovernabile e che abbia bisogno, un po’ come durante il calciomercato estivo, di periodi annuali di cambiamenti, di cambiare la rosa della propria squadra, portando avanti una logica distruttiva di instabilità.

Oggi in piena emergenza sanitaria non possiamo non rispettare le nostre tradizioni. L’ingovernabilità pare essere un tratto distintivo della nostra nazione. Quindi, leggendo la storia, non dovremmo stupirci se un minuto partito come Italia Viva abbia potuto mettere in crisi un esecutivo già fragile di per sé. Questa rappresenta una naturale evoluzione di un governo italiano.

Fra qualche giorno, come una costante ineluttabile, scopriremo il nostro destino ma almeno una cosa è certa, dietro l’angolo ci sarà un nuovo governo, in quale declinazione non si sa ma è l’unica certezza che abbiamo.

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Italia ed Europa, ecco cosa serve per ripartire

Italia ed Europa, ecco cosa serve per ripartire

Gennaio 22, 2021 by guest in News

di Gabriele Iuvinale

In UE l’Italia è fanalino di coda per crescita del PIL
Il PIL non regge il passo del debito pubblico con un rating a un gradino da junk («spazzatura»).

COSA SERVE REALMENTE E VELOCEMENTE?
Serve sviluppare rapidamente una politica trasparente di INVESTIMENTI mirati alla crescita sostenibile, accompagnata da RIFORME e basata su una forte DISCONTINUITA’ nelle procedure rispetto al passato

30 ANNI DI MANCATA CRESCITA IN ITALIA
CAUSE:
incertezza politica e normativa
qualità dell’azione della PA
inefficienza della giustizia
aspetti demografici
modello di sviluppo, in termini di capitale umano, dimensione d’impresa e specializzazione tecnica e produttività

DEBITO PUBBLICO ENORME
Nella prima metà del 2020 il rapporto debito/PIL è cresciuto da 134% a quasi 160%. Raggiungerà presto un rapporto del 170%. E’ il più alto nella UE dopo la Grecia. A volte, lo spread sovrano dell’Italia ha raggiunto livelli paragonabili a quelli di titoli cosiddetti high yield o junk.

Ridotti investimenti pubblici
2009-2019: in Italia la spesa pubblica per investimenti è calata dal 3,7% al 2,2% del PIL (media UE diminuita solo dal 3,7% al 3,0%)
Secondo BI, il moltiplicatore fiscale potrebbe arrivare fino a 1,2 senza contare possibili sinergie con il privato.

Ritardi e peculiarità dell’Italia.
Esempi. Secondo un rapporto delle Corte dei Conti UE, l’Italia è il Paese con il più alto costo di costruzione delle linee ferroviarie AV già completate (28 milioni per chilometro, contro i 12 della Spagna, i 13 della Germania e i 15 della FR). Il costo sale a 33 milioni se si sommano i progetti in via di realizzazione, contro i 14 della Spagna e i 15 di DE e Francia.

I tempi di realizzazione dell’AV sono circa tre volte superiori a quelli di F e E; quelli delle autostrade sono più che doppi rispetto alla E. Il 79,6% delle imprese italiane ha un indice di intensità digitale basso o molto basso (rispetto al 74,2% della media UE). Il tasso di penetrazione dell’intelligenza artificiale è solo un quarto della media UE. Nel 2019 solo il 2% delle pubblicazioni accademiche erano co-pubblicazioni pubblico/privato (collaborazione tra ricercatori e imprese), rispetto al 4% dell’UE
La disponibilità di laureati nelle discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), è solo il 27% contro oltre il 37% in Germania: un ostacolo per gli investimenti innovativi. Il mercato del venture capital in Italia nel 2019 è stato di soli 244 milioni, contro i 2,6 miliardi in UK, e 2 miliardi in Francia e Germania.

Gli effetti economici del Coronavirus
In assenza di un serio percorso di crescita, tale livello di debito rischierebbe di diventare difficilmente controllabile, soprattutto se la BCE abbandonasse le sue politiche accomodanti.
Lo sforzo necessario per ridurre il debito pubblico
È necessario agire adesso per la crescita. Tassi di interesse bassi, associati a una scadenza del debito
relativamente lunga, non mettono in pericolo le dinamiche del debito nel breve termine.

La risposta europea alla crisi: Recovery Fund, SURE, Gruppo BEI
E’ importante che le risorse UE siano canalizzate nel modo giusto, con un forte coordinamento centrale, anche mediante apposite strutture con adeguati poteri. L’implementazione, in alcuni settori, potrà essere delegata a livello regionale o locale. Questo processo deve essere sostenuto da riforme volte a riportare l’Italia sulla strada di una crescita più robusta.

CONCLUSIONI
Occorre focalizzarsi su poche priorità (ambiente, economia digitale, PMI, infrastrutture) combinando impulso e monitoraggio centrale con un’implementazione che in alcuni casi può essere locale. È necessario un rafforzamento dell’amministrazione pubblica, anche attraverso strutture che operino con discontinuità rispetto al passato e dotate di adeguati potere e competenze. La valutazione delle performance non potrà più essere posta in essere con le regole attuali. Dovrebbe essere affidata ad un organo terzo ed imparziale per evitare una PA iper-burocratica ed autoreferenziale.
Giustizia. Efficientamento degli uffici, semplificazione ed unificazione dei processi nel rito del lavoro, cause bagatellari da decidere con conciliazioni e rientro di tutti i magistrati in sede e separazione delle carriere.

Quattro emergenze in atto
SANITARIA
FINANZIARIA
ECONOMICA
GIUDIZIARIA
C’è un enorme problema di crediti deteriorati (NPL) di cui nessuno parla. Ciò porterà anche ad una forte contrazione del credito bancario e ad un aumento significativo delle procedure fallimentari. In Germania durante il lockdown si è registrato un aumento del + 30% di fallimenti di piccoli imprenditori. La crisi economica metterà in crisi molti Enti locali già provati da tagli passati. Molte partecipate (trasporti, ecc) risentiranno delle conseguenze economiche derivanti dal lockdown.

Ci sono emergenze enormi da gestire.
L’attuale classe politica non è in grado di farlo.
Il recovery plan, se non attuato al meglio, potrebbe tradursi in ulteriore perdita di sovranità per l’Italia.
Oramai dipendiamo dalla volontà di:
BCE
Agenzie di rating americane
Germania

E la colpa è nostra. Non credete a chi, come Salvini o la Meloni, tentano di far ricadere la colpa sulla cattiva Europa o sulla Germania.  NO! La nostra situazione di debolezza strutturale è la scolastica conseguenza di una politica inetta che ha pensato di surrogare negli anni la crescita con il DP e le tasse.
Il non fare per governare senza perdere il consenso politico. Il vivere sulla irresponsabilità del cittadino tenuto allo scuro dei gravi problemi del nostro Paese. Dobbiamo prendere cognizioni di ciò che ci attende. Essere cittadini europei significa non avere paura della UE ma considerarla una grande opportunità di crescita e di ripresa.  Dobbiamo ritornare a crescere sia come PIL sia in termini di fiducia. Occorrerà tempo. L’accordo franco-tedesco di questa estate ci ha salvato da una crisi finanziaria senza precedenti. Tuttavia, i soldi europei non sono crediti ma debiti che si aggiungo all’enorme DP italiano. Serve cambio immediato di marcia. Serve una nuova classe politica competente che dica sempre la verità al cittadino e sappia dove mettere le mani per riportare questo Paese nel giusto binario della crescita.

Questo è ciò che ci proponiamo.
Forza e coraggio.

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I giovani e la politica della Buona Destra

I giovani e la politica della Buona Destra

Gennaio 20, 2021 by guest in News

di Gabriele Sari

Oggi in Italia i giovani sono distanti dal dibattito che ruota intorno ai temi di carattere politico e sociale. Non hanno più fiducia nella politica e nelle Istituzioni perché negli ultimi anni hanno ricevuto da chi ha governato tante incertezze e poche risposte. Tutto ciò porta le nuove generazioni ad allontanarsi dalla politica in quanto la sentono lontana, come un qualcosa che non merita di essere vissuto attivamente.

È difficile dare torto a questo atteggiamento. Da decenni la politica italiana si è spesso disinteressata delle nuove generazioni: parliamo di una categoria tra le più penalizzate dalle recenti politiche legislative e non solo. La politica ha spesso preferito concentrarsi su altre classi sociali, più redditizie dal punto di vista elettorale, perdendo di vista un concetto fondamentale: i giovani di oggi sono la classe dirigente di domani. Non investire nei settori che permettano alle nuove generazioni di crescere culturalmente e istituzionalmente significa condannare il Paese ad avere in futuro una classe politica che avrà difficoltà ad amministrare la macchina statale.

I partiti politici non aiutano a risolvere questo problema. Il distacco dei giovani è dovuto anche e soprattutto alle promesse non mantenute, ai proclami che si esauriscono negli slogan urlati in piazza, ad una comunicazione politica che fatica a farsi raggiungere e comprendere.

I giovani hanno bisogno di certezze, di un posto di lavoro, di unfuturo che dia loro la possibilità di studiare qua in Italia senza essere poi costretti ad espatriare per mettere in pratica le conoscenze acquisite durante il percorso universitario.

Se dunque la classe politica di oggi ha il dovere di interessarsi alle nuove generazioni, vi è uno speculare dovere per i giovani di interessarsi alla cosa pubblica. È un dovere che deve nascere dalla consapevolezza di giocare un ruolo decisivo nel dibattito istituzionale e governativo di tutti i giorni. Questo vuol dire anche, semplicemente, esprimere il proprio voto in occasione delle elezioni, diritto/dovere che le nuove generazioni sono restie ad esercitare/adempiere.

La Buona Destra, da questo punto di vista, offre una casa a tutti quei giovani che si sentono abbandonati, poco rappresentati, ignorati o addirittura penalizzati dalla classe politica odierna.

In primo luogo, la Buona Destra nasce proprio per essere un’alternativa al populismo della classe dirigenziale che da decenni governa l’Italia e che tanti danni ha causato alle nuove generazioni. Si tratta di un partito che guarda al futuro, che crede nelle enormi potenzialità dei ragazzi, che crede che l’unico modo per assicurare stabilità economica ai giovani sia quello di investire nella scuola, nell’Università e nella ricerca e creare le condizioni economiche che permettano alle imprese di essere competitive nel mercato con la conseguente offerta di posti di lavoro.

Tutto questo occupa un posto di speciale importanza nel Manifesto del partito: la Buona Destra deve ideare e realizzare una politica per la crescita del lavoro in Italia, per l’occupazione dei giovani e per bloccare l’espatrio dei cervelli e facilitare il ritorno in Patria di chi è partito;

In secondo luogo, la Buona Destra contrasta quella che è la “politica della spesa” che, da destra a sinistra insegue demagogicamente gli elettori, raccogliendone strumentalmente tutte le richieste e finanziandole con lo sconsiderato aumento a dismisura del debito pubblico. La Buona Destra è conscia di quanto questo debito pubblico incida sul futuro dei giovani e di quanto sia importante porre fine a quelle spese sostenute soltanto per inseguire e raggiungere il consenso elettorale.

Infine, la Buona Destra non può che essere europeista, consapevole di quanto sia importante, in un mondo globalizzato come quello che viviamo oggi, un organismo sovranazionale che assicuri pace, benessere e stabilità ai popoli. Soprattutto considerati i vantaggi che i giovani hanno tratto dalle iniziative dell’Unione Europea, in termini di investimenti, opportunità, progetti indirizzati agli universitari e ricercatori, all’insegna della libertà di movimento tra gli Stati membri e di una collaborazionesempre più stretta tra le Università di tutta Europa.

Insomma, la Buona Destra crede fortemente che investire nel presente e nel futuro delle nuove generazioni possa permettere all’Italia del domani di avere una classe dirigente all’altezza del Paese che tanto ha bisogno dei suoi giovani migliori.

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Le lezioni urlate su una Costituzione non conosciuta: le urla sovraniste

Le lezioni urlate su una Costituzione non conosciuta: le urla sovraniste

Gennaio 19, 2021 by Claudio Desirò in News

di Claudio Desirò e Kishore Bombaci

Sentire l’On. Meloni citare, in modo urlato, la Costituzione in Parlamento, farebbe abbastanza sorridere se non fosse grave, sia nei toni che nei contenuti.

Se non si attaccasse ad una interpretazione del tutto personale e strumentale della carta fondamentale, sarebbe interessante seguire le lezioni della “Professoressa”, ma giusto qualche precisazione, per essere pignoli, bisogna farla.

Art. 1: “ La sovranità appartiene al popolo che la esercita votando” è una riforma costituzionale che era sfuggita ai più, rimasti fedeli alla vecchia, ma sempre attuale,  formulazione, cioè “… che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Probabilmente ci siamo distratti e non ci siamo accorti delle modifiche personali apportate alla Carta Costituzionale. Le differenze di forma e sostanza, tra ciò che viene espresso dall’Art. 1 e ciò che sostiene la leader sovranista, sono talmente grossolane che solo a causa di un tentativo maldestro di strumentalizzazione propagandistica possono essere giustificate.

Le FORME ed i LIMITI della Costituzione impongono tutta una serie di passaggi formali e sostanziali che consentono al popolo di esercitare la propria sovranità mediante la delega ai propri rappresentanti. La sovranità è delega, non è plebiscito. Che differenza c’è? La delega è a tempo, segna i confini di un patto tra rappresentanti e rappresentati. Consente ai primi di godere del necessario periodo di tempo per dar corpo alla propria proposta politica in relativa tranquillità senza essere sotto il perenne ricatto del voto, e ai secondi di giudicare, alla fine di questo periodo di tempo, se gli impegni sono stati mantenuti oppure no. Il plebiscito invece è un moto di pancia che si esercita in una dimensione immanente del tempo. Dove l’elemento emotivo prevale su quello razionale. Come sui social, sui quali, attraverso slogan privi di contenuto, l’On Meloni, ed il suo sodale Salvini, sono soliti raccattare un consenso non basato sulla sostanza.

Non è ciò di cui parla la Costituzione all’art.1 e solo a queste condizioni, quindi la Meloni potrebbe aver ragione nel dire che la sovranità si esercita mediante il voto. Però quel che l’Onorevole tace, volutamente ed in modo razionale, è che a fine legislatura – nel 2018 – il popolo ha regolarmente esercitato la sua funzione costituzionale. L’attuale Parlamento è frutto proprio di quelle scelte elettorali, regolarmente effettuate dal corpo elettorale nell’esercizio della propria sovranità.

A tale proposito, bisogna ricordare ancora una volta, che in una forma di governo parlamentare il popolo elegge il Parlamento, ed il Parlamento stesso dura in carica 5 anni, conferendo fiducia al Governo, anche sulla base di maggioranze che possono variare. E salvo eventi costituzionalmente patologici, quella durata dovrebbe essere mantenuta. Tutto questo, attenendosi ai limiti imposti costituzionalmente, volutamente e in contrapposizione a eventi politicamente patologici. In quei casi, il saggio costituente ha previsto meccanismi di autotutela costituzionale per evitare il ricatto di cui si parlava sopra.

Le certezze del diritto, sopratutto del diritto costituzionale, vengono ben prima, fortunatamente, delle certezze politiche basate sulla variabilità del sondaggio, dell’umore della pancia, del numero dei like ricevuti sotto ad un post su Twitter, Facebook o qualunque altra tribuna social su cui, i rappresentanti politici odierni, sono soliti andare a produrre la propria proposta politica, i propri slogan.

Avviene così in tutto il mondo. I Paesi che, in questo periodo di crisi sanitaria ed economica, hanno votato, lo hanno fatto perché la legislatura era terminata (USA) o lo faranno al termine della stessa (Olanda), al netto di ciò che taluni politici o politicanti ci vogliono far credere. Di certo, non lo hanno fatto perché, come vorrebbe la Professoressa, i sondaggi mostravano un presunto cambio di sensibilità politica nel Paese. Peraltro, stando alle ultime elezioni regionali, non pare nemmeno ricorrere questo mutamento radicale di sensibilità, presupposto per il quale il Presidente della Repubblica potrebbe sciogliere le Camere.

Spesso i sovranisti si appellano al (residuale) potere del Capo dello Stato di indire nuove elezioni allorchè il tessuto politico del paese sia radicalmente mutato rispetto a quanto rappresentato in Parlamento. Ma ciò non sembra avvenire nel caso italiano. A dir la verità, nemmeno seguendo alcuni istituti sondaggistici, per i quali l’attuale centrodestra non è detto riuscirebbe ad avere la maggioranza. Quindi, per qual motivo si dovrebbe andare a votare? I presupposti costituzionali non ricorrono in nessun modo e da nessun punto di vista. Probabilmente nemmeno i presupposti politici contingenti. E sicuramente, come dimostrato dall’innalzamento dello Spread nei giorni scorsi, mancano anche i presupposti relativi ad un possibile beneficio per il Paese, a differenza di quello che gli urlanti sovranisti raccontano.

Quindi che cosa è la richiesta di elezioni anticipate? Solo mera propaganda. Apparentemente colta certo, ma sempre propaganda che, in realtà nasconde una profonda ignoranza sui meccanisimi fondamentali dello Stato. Ignoranza che se scusabile nel cittadino, lo è molto meno per chi siede sullo scranno parlamentare da svariati decenni, a dispetto del presentarsi sempre come “Il nuovo che avanza”. Un “nuovo” che siede in più Istituzioni da troppo tempo per non conoscere appieno i limiti imposti dalla Costituzione.

Quindi, e torniamo all’articolo 1 Cost, i limiti costituzionali alla sovranità popolare, non sono di natura politica, tantomeno sondaggistica – se ne facciano una ragione i pasdaran del voto a tutti i costi- ma da una serie di procedure specifiche nelle quali gli organi costituzionali coinvolti debbono esercitare ogni funzione prevista dalla Costituzione repubblicana. Ma che cosa è questa sovranità? Non si tratta del potere assoluto e arbitrario che non può essere conferito né a uno (re, dittatore e quant’altro), né a organi costituzionali collettivi (il corpo elettorale). La sovranità è una condizione di diritto e non di fatto, che si esercita in certe forme, e, dal punto di vista sostanziale, con doverosa consapevolezza.

Questo, invero, dovrebbe essere il compito della politica. Rendere consapevole il popolo, educarlo e accompagnarlo alla partecipazione politica. Cioè, metterlo in condizione di liberamente formarsi il proprio giudizio che troverà espressa manifestazione ogni cinque anni, alle urne. Non prima e non certo a ogni mutamento di pancia. Ecco perché l’analfabetismo costituzionale non è accettabile. A maggior ragione se proviene dalla classe dirigente. E’ il segno del fallimento culturale di una classe politica che usa la Carta fondamentale come una clava propagandistica contro il nemico politico. Questo non si può accettare davvero. La storia di questo paese insegna che la Costituzione è un testo vivente, nato dal sangue di tanti che si sono battuti per la libertà e per la patria, libera e democratica. Merita il rispetto che si tributa a un antenato illustre. A qualcuno, senza il quale non saremmo ciò che siamo. E allora non la si può strumentalizzare, né tantomeno farlo con tale superficialità e becera propaganda.

E se non lo si fosse mai fatto prima, sarebbe buona norma leggere e comprendere la nostra Costituzione prima di proporsi ad occupare uno scranno parlamentare. Per opportunità, per cultura personale o, anche solo, per evitare citazioni errate, proprie interpretazioni e pessime figure.

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Scendono in campo gli scienziati: un piano comune europeo contro il Covid-19

Scendono in campo gli scienziati: un piano comune europeo contro il Covid-19

Gennaio 18, 2021 by Redazione in News

Scienziati di tutta Europa, unitevi!

E’ dagli studiosi di tutto il vecchio continente che arriva la proposta di un piano comune europeo per combattere la pandemia da Covid-19. Virologi, sociologi, epidemiologici ed economisti dei paesi membri della Ue hanno lanciato l’idea di un’azione congiunta per il bene comune, riducendo il numero di infezioni il prima possibile, stabilizzandole ad un livello basso. L’appello pubblico è stato lanciato sulla rivista internazionale scientifica The Lancet a fine dicembre 2020.

Il principio è sempre lo stesso, vale per ogni settore ma soprattutto in questo caso: se l’Unione Europea funziona come blocco unico, l’obiettivo comune diventa sostenibile. Non a caso, il piano prevede il mantenimento delle frontiere aperte tra gli stati, con la consapevolezza che un singolo Paese non può da solo mantenere basso il numero di casi Covid-19.

Questi i punti principali del documento per ridurre i casi e contenerne il numero:

  • puntare ad un obiettivo di 10 nuovi casi o meno per milione di persone al giorno. Questo obiettivo è già stato raggiunto in molti Paesi e può essere raggiunto nuovamente in tutta Europa entro la primavera;
  • agire con decisione per ridurre rapidamente il numero di contagi. Interventi efficaci si sono dimostrati decisivi e bilanciano il rapido raggiungimento di un numero basso di casi con l’impatto negativo sulla salute mentale e sull’economia;
  • per evitare un effetto ping-pong importando e reimportando le infezioni da SARS-CoV-2, la riduzione dovrebbe essere sincronizzata in tutti i Paesi europei ed iniziare il prima possibile. Questa sincronizzazione consentirà di far rimanere aperti i confini europei;
  • con un numero basso di casi, le restrizioni possono essere alleviate, ma questo dovrebbe essere attentamente monitorato. Saranno proseguite e migliorate misure di mitigazione mirate, come indossare maschere, igiene, regolazione del contatto e TTIS;
  • anche se il numero di casi è basso, dovrebbe essere attuata una strategia per i test di sorveglianza (di almeno 300 test per milione di persone al giorno), che copra i gruppi di popolazione più importanti a rischio in modo che un aumento del numero di casi possa essere rilevato nel tempo;
  • le epidemie locali richiedono una risposta rapida e rigorosa, comprese le restrizioni di viaggio, test mirati e possibilmente blocchi regionali, per ottenere una rapida riduzione della prevalenza.

E’ la visione comuna a lungo termine la base di questo progetto, che prevede lo sviluppo di piani d’azione regionali e nazionali sensibili al contesto, nonché il raggiungimento di obiettivi a livello europeo, a seconda della prevalenza di Covid. L’appello è rivolto anche a tutti i governi degli stati dell’Europa per coordinare i loro sforzi e sviluppare strategie comuni ma adattate alle singole situazioni.

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Storia di una crisi annunciata

Storia di una crisi annunciata

Gennaio 15, 2021 by Francesco Rubera in News

di Francesco Rubera 

Questa crisi, che sembra al buio, in realtà è la crisi di governo più limpida degli ultimi anni. Sicuramente più limpida della crisi di governo voluta da Salvini nel Conte 1. Salvini aveva fatto i conti con i numeri, per ragioni di mero opportunismo, ma non aveva fatto i conti con l’oste, peccando di presunzione e fuoriuscendo dalla compagine governativa che aveva guidato da vice premier e ministro dell’Interno.

Renzi per mero trasformismo accettò di salvare il governo Conte, con il Conte bis, ma con questa crisi è andato un tantino sopra le sue aspettative. Infatti, un partitino al 2% non può pretendere di far cadere l’attuale governo senza pagare il prezzo dell’estinzione. E probabilmente ci riuscirà pure, a farlo cadere, ma su questa vicenda ha distrutto la sua immagine e la sua reputazione politica, già massacrata con la sconfitta al referendum costituzionale.

Purtroppo, per quanto una posizione sostanziale possa essere condivisibile, come quella di Renzi, tuttavia in politica, molto spesso, la forma ha lo stesso valore della sostanza. Si chiama pertinenza. Vi sono momenti in cui il bene comune va oltre gli interessi di un partito ed una singola azione è impertinente in determinati momenti, anche se fondata su principi sacrosanti. Sono quei momenti in cui occorre tapparsi il naso e rimandare le battaglie e le crisi di governo a momenti successivi, perché necessita salvaguardare il bene collettivo. Renzi, per molto poco (non si è ancora compreso cosa volesse: il ponte sullo stretto? Gestire i fondi Europei?) ha messo in discussione un valore superiore, che è l’unità di indirizzo politico, in un momento in cui il popolo italiano, stremato dalla pandemia ha necessità di ricucire gli strappi dell’imposizione e della crisi economica nata per tutelare la salute collettiva.

Renzi ha messo in discussione l’Italia e gli italiani con oltre 80.000 morti di fronte all’opinione pubblica internazionale, anteponendo le sue antipatie nei confronti di Conte rispetto al bene collettivo della nazione. In questa vicenda ha dimostrato ancora una volta scarso senso civico e non solo politico. E se nella sostanza ha avuto il merito di sollevare un dissenso forte, contro un governo che dell’assistenzialismo ne ha fatto una bandiera, dall’altro lato, con l’intempestività della sua azione ha sminuito questa battaglia, dando un taglio diverso, in termini di comunicazione, al suo obiettivo mancato.

Infatti, Renzi oggi appare come un rottamatore incallito, ma fallito, dote che in politica è una palla al piede. Conte esce più forte, nonostante non abbia i numeri per governare in questo momento, ma la scelta di Renzi lo ha reso immune da critiche, anzi esce vittima della violenza verbale e politica del rottamatore, fuoriesce il salvatore della patria, ma certamente non è dotato di tale carisma in questo momento, anche se ci ha provato, fallendo. Resta da vedere quali siano gli scenari nuovi per comporre la crisi.

In realtà non potrà risolversi con una virata di Renzi, poiché anche se così fosse, ci troveremmo di fronte ad un governo della crisi bis. In realtà Renzi è da un anno che fa opposizione dentro la maggioranza e ce ne eravamo accorti sin da tempi non sospetti. Nessuno ha mai compreso cosa facesse dentro la maggioranza da costante oppositore rispetto alle scelte di Conte e dei suoi alleati. Sarà stata solo una questione di poltrone? Probabilmente sì, ma sta di fatto che questa nuova crisi deve essere risolta presto, poiché il prezzo più alto lo pagheremo noi Italiani, nella speranza che ce ne ricorderemo alle urne.

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Giorgia Meloni e la “cattiva destra”

Giorgia Meloni e la “cattiva destra”

Gennaio 13, 2021 by Marco Mensi in News

di Marco Mensi 

Lunedì 21 Dicembre scorso il quotidiano “Libero” ha pubblicato un articolo del giornalista Alessandro Giuli che esaltava Giorgia Meloni come la leader che saputo rifondare la destra, superando tutti i problemi e le difficoltà degli ultimi anni. In particolare Giuli afferma che la Meloni ha saputo ridare dignità ad un popolo dopo la parentesi di Gianfranco Fini e l’esperienza del Pdl.

Ovviamente si guarda in modo esclusivo agli ultimi sondaggi ma nulla viene detto circa il posizionamento europeo di Fratelli d’ Italia e soprattutto sulle idee e il programma del partito. L’analisi di “Libero” è parziale e faziosa perchè ignora che la Meloni dopo lo smacco ricevuto alle elezioni Europee del 2014, quando i suoi Fratelli d’Italia non sono riusciti a raggiungere il quorum del 4%, ha decisamente virato la sua politica verso il lepenismo, trasformando un partito che ambiva ad essere un centro/destra nazionale in una forza di estrema destra, radicale, xenofoba, diffidente verso l’Europa e che propone per l’Unione Europea la stessa ricetta a cui Charles De Gaulle pensava nel 1958. E cioè una Europa degli Stati Sovrani, con buona pace di tutti coloro che invece chiedono una maggiore integrazione per competere con i più importanti attori internazionali.

E’ necessario evidenziare che Giorgia Meloni per rifondare Fratelli d’ Italia è tornata indietro, percorrendo una strada esattamente opposta a quella iniziata da Gianfranco Fini con Alleanza Nazionale. Se, infatti, Fini ha cercato di sganciarsi dalla destra radicale, presentando il suo partito come una destra moderna e antifascista (al netto magari di qualche militante che aveva ancora idee nostalgiche) che aspirava con pieno diritto a governare il paese, condannando l’ antisemitismo e riconoscendo nella resistenza un passaggio inevitabile per riportare la democrazia in Italia, Giorgia Meloni ha invece deciso di arretrare, di girare indietro le lancette della storia, guidando le “sue truppe” verso posizioni più estremiste di quelle sostenute addirittura dal Movimento Sociale di Giorgio Almirante.

La ragazza della Garbatella si è fatta contagiare dal sovranismo e dal populismo ed ha intercettato il voto degli arrabbiati e dei delusi, scatenandosi contro l’immigrazione e gli immigrati, imitando il compagno di avventure Salvini e addirittura scegliendo Donald Trump come modello. Il suo ingresso nel gruppo europeo dei Conservatori e Riformisti, salutato sorprendentemente con favore da tutta la stampa nazionale, deve essere considerato invece un altro passo indietro perchè si è voluto scientemente ignorare chi sono le altre forze politiche che ne fanno parte. Pensiamo al partito spagnolo neofranchista Vox, che vuole eliminare qualunque forma di autonomia nei Paesi Baschi e nella Catalogna; al greco Soluzione Ellenica che flirtava addirittura con i neonazisti di Alba Dorata o al partitito polacco Diritto e Giustizia, ferocemente antieuropeo e legato alle frange piu estreme della chiesa polacca al punto che ancora oggi non riconosce alle donne la libertà di scelta in materia di aborto. E questo è solo un esempio corroborato peraltro dall’ atteggiamento ambiguo tenuto nei confronti dell’ ultimo assalto al Campidoglio dei manifestanti trumpisti, una debole condanna pronunciata quasi con fastidio.

All’esito di questa disamina possiamo dire che Giorgia Meloni non ha rifondato la destra ma ha tradito invece i suoi veri ideali, piegandosi alle correnti più estemiste e cercando un facile consenso senza neppure cercare di sperimentare una strada diversa, quella che dovrebbe condurre al vero progresso e al vero benessere della collettività.

Per questo motivo nasce la Buona Destra, per andare avanti senza tornare indietro, per sostenere sempre di più l’integrazione europea, per dimostrare agli italiani che si può perseguire una politica economica liberista e di stimolo alle imprese senza rinunciare alla tutela dei diritti civili e a pensare che l’immigrazione possa trasformarsi in una importante risorsa per la nostra società, senza più essere vista solo come un problema.

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